di Marco Bersani, Attac Italia*.
Una delle maggiori evidenze emerse durante la fase critica dell’epidemia da Covid-19 è stata il collasso del sistema sanitario in tutte le regioni maggiormente colpite, con l’ (ex) eccellenza lombarda ritrovatasi con il primato mondiale negativo in termini di malati e di morti.
Abbiamo drammaticamente sperimentato cosa hanno significato due decenni di progressiva trasformazione della salute da diritto a merce: drastici tagli alla spesa e al personale, ingresso ed espansione dei privati, torsione aziendalistica anche della gestione pubblica...
Ciò che è stata quotidiana esperienza di ogni lavoratore del servizio sanitario e di ogni cittadino alle prese con le proprie necessità di cura, è oggi certificato dall’ultimo “Rapporto sul coordinamento della Finanza pubblica”, recentemente redatto dalla Corte dei Conti.
Secondo l’analisi, “il successo registrato in questi anni nel riassorbimento di squilibri nell’utilizzo delle risorse non ha sempre impedito il manifestarsi di criticità che oggi è necessario superare: si tratta delle differenze inaccettabili nella qualità dei servizi offerti nelle diverse aree del Paese; delle carenze di personale dovute ai vincoli posti nella fase di risanamento, dei limiti nella programmazione delle risorse professionali necessarie ma, anche, di una fuga progressiva dal sistema pubblico; delle insufficienze della assistenza territoriale a fronte del crescente fenomeno delle non autosufficienze e delle cronicità; del lento procedere degli investimenti sacrificati a fronte delle necessità correnti”.
Linguaggio felpato per dire una verità ineluttabile: l’ossessione del riequilibrio finanziario, dettato dai vincoli di Maastricht e dal pareggio di bilancio, ha di fatto smantellato il servizio sanitario pubblico e i risultati sono quelli che tutti abbiamo visto e sperimentato.
Rileva il rapporto di come, tra il 2009 e il 2018, si sia verificata una riduzione particolarmente consistente delle risorse destinate alla sanità, con una spesa pro capite diminuita di 8 decimi di punto ogni anno. In Europa, solo la Grecia ha tagliato la spesa sanitaria più dell’Italia, mentre alcuni paesi l’hanno costantemente aumentata (+2% Francia, +2,2% Germania), con un rapporto di spesa pro capite che oggi vede la Germania spendere il doppio e la Francia il 60% in più delle risorse messe a disposizione di ogni cittadino italiano.
Inutile dire come, a questo progressivo depauperamento della spesa pubblica sanitaria, abbia corrisposto un ampliamento dei costi a carico delle famiglie, con un aumento del 14% negli ultimi sei anni.
La Corte non può, evidentemente, esplicitare critiche ai processi di privatizzazione avvenuti, con la conseguente centratura della sanità sulle strutture ospedaliere -la prevenzione costa, la terapia remunera- ma chiunque può capire cosa sottenda il passaggio: “un’adeguata rete di assistenza sul territorio non è solo una questione di civiltà a fronte delle difficoltà del singolo e delle persone con disabilità e cronicità, ma rappresenta l’unico strumento di difesa per affrontare e contenere con rapidità fenomeni come quello che stiamo combattendo. L’insufficienza delle risorse destinate al territorio ha reso più tardivo e ha fatto trovare disarmato il primo fronte che doveva potersi opporre al dilagare della malattia e che si è trovato esso stesso coinvolto nelle difficoltà della popolazione, pagando un prezzo in termini di vite molto alto”.
D’altronde, se a livello europeo si è sospeso il patto di stabilità per poter avere le risorse per salvare vite e curare persone, non serve Aristotele per concludere che il patto di stabilità è contro la vita e la cura. Tocca tenerlo a mente, ora che la faglia sulla narrazione liberista, aperta dalla pandemia, sta per essere richiusa dal rinnovato feticismo per la cultura dell’impresa.
*Articolo già pubblicato su il manifesto del 6.06.2020.