di Marco Bersani, Attac Italia.
L’euforia promossa dal governo e scatenatasi sui media mainstream per la proposta d’istituzione del Recovery Fund da parte della Commissione Ue ricorda i bambini alla vigilia del Natale, con un’unica differenza: nei sogni dei bambini c’è un universo di desideri, negli annunci del governo propaganda e manipolazione...
Ma, poiché è bello crederci, ecco risuonare da ogni altoparlante l’arrivo di un bastimento carico di 81 miliardi di aiuti e 90 miliardi di prestiti, frutto di un futuribile compromesso tra le esigenze dei paesi “dissipatori” e il rigore di quelli “frugali”.
Ed ecco scatenarsi la discussione su come spendere tanto ben di dio, elargito da un’Europa tornata madre e non più matrigna, che ha anche dato al nascituro il suggestivo nome di “Next Generation Ue”.
Ma, mentre solo adulti insani considererebbero necessario interrompere la magia dell’attesa del Natale dei bambini comunicando loro la dura realtà -Babbo Natale non esiste!- lo stesso atteggiamento non può essere adottato di fronte all’illusione di massa prodotta dall’annuncio del Recovery Fund.
Ecco di conseguenza un breve itinerario per spiegare di cosa si tratta, con l’ovvia avvertenza di descrivere un processo in itinere -tra il dire e il fare…- suscettibile di molteplici variazioni in corso d’opera.
Che cos’è il Ricovery Fund
Nella proposta della Commissione Europea, è un fondo di 750 miliardi, 500 dei quali vengono messi a disposizione sotto forma di finanziamento e gli altri 250 sotto forma di prestito.
I soldi verrebbero raccolti attraverso obbligazioni emesse dalla Commissione Europea e garantite dal bilancio Ue, cui gli Stati concorrono, versando una quota corrispondente all’1% del Pil (12 miliardi per l’Italia).
Secondo la ripartizione proposta dalla Commissione Ue, all’Italia spetterebbe una cifra potenziale di 172.7 miliardi, 81.8 dei quali come finanziamento e 90.9 sotto forma di prestiti.
Occorre precisare che, poiché il tutto sarà incardinato nel bilancio dell’Ue e quest’ultimo è scandito in settennati (2020-2027), la cifra potenziale sopra riportata va ripartita nel medesimo arco di tempo: si tratta di conseguenza di complessivi 25 miliardi/anno.
Sono comunque soldi che potrebbero arrivare, per cui la notizia è positiva.
Ma sembra evidente a chiunque che, se si fosse detto che a disposizione dell’Italia ci saranno 25 miliardi all’anno (18 dei quali come finanziamento e 7 come prestito), l’effetto magico sarebbe immediatamente svanito. Perché sono risorse ridicole rispetto a quelle necessarie.
Anche perché va tenuto conto del fatto che, per aumentare le garanzie sulle obbligazioni, il bilancio Ue verrebbe nel frattempo raddoppiato, portando al 2% del Pil la quota che ogni Stato deve corrispondere (a quel punto, per l’Italia sarebbero 24 miliardi).
A cui andrà probabilmente aggiunta un’ulteriore cifra che gli Stati dovranno versare per compensare il mancato apporto al bilancio Ue della Gran Bretagna, in seguito alla Brexit.
La tempistica del Recovery Fund
A raffreddare ulteriormente gli entusiasmi concorre la tempistica prevista. Mentre la propaganda dà per imminente l’operatività dei fondi, la discussione sul Recovery Fund deve ancora iniziare: il primo appuntamento è fissato per il prossimo 18 giugno, ma, poiché le posizioni fra i diversi Paesi sono ancora molto distanti, è prevedibile che serva anche l’ulteriore incontro di metà luglio. Se tutto dovesse a quel punto intraprendere una strada positiva (e non è assolutamente scontato), essendo il Recovery Fund incardinato nel bilancio dell’Ue, significa che le risorse previste potranno essere utilizzate non prima di un anno.
“Piuttosto che niente, è meglio piuttosto” si dice a Milano, ma certo siamo ben lontani da una risposta ad un’emergenza che, già da settembre, assumerà contorni drammatici.
Senza condizioni?
Per sviscerare il punto, occorre innanzitutto sottrarre i 250 miliardi sotto forma di prestito. Essendo prestito, dovrà essere ripagato con i relativi interessi, per quanto ridotti essi siano.
E gli altri 500 miliardi? Difficile sbandierare che non abbiano condizioni, almeno a leggere il testo della proposta della Commissione Ue. Intanto, occorre sapere che non verranno versati in un’unica tranche, bensì a rate nell’arco dei sette anni di vigenza del bilancio Ue.
Nel testo è scritto che “il dispositivo sarà integrato nel semestre europeo”, che, nel linguaggio tecnocratico dell’Unione Europea, significa che l’accesso a questi finanziamenti sarà subordinato “al rispetto delle regole che disciplinano il ciclo di coordinamento delle politiche economiche e di bilancio nell’ambito dell’Ue”.
Poiché il lessico oligarchico è duro a morire, occorre un’ulteriore traduzione per capire su quali pilastri si fondino le regole da rispettare: a) prevenzione degli squilibri macroeconomici (ovvero, conti in ordine); b) bilancio sano (ovvero, avanzo primario, entrate dello Stato superiori alle uscite); c) riforme (che ormai sappiamo voler dire deregolamentazione del lavoro, tagli alla spesa pubblica e privatizzazioni).
Quindi, per accedere alle risorse a fondo perduto, occorre impegnarsi a politiche di austerità. E se la prima rata non sarà negata a nessuno, nulla vieta che quelle successive vengano erogate solo ed esclusivamente a quelle condizioni.
Malfidenza preconcetta? Non si direbbe, stando alle dichiarazioni fatte proprio in questi giorni dal vicepresidente della Commissione europea, Valdis Dombrovkis: “I fondi saranno resi disponibili soltanto dopo la verifica dei progressi nelle riforme”. Vedere cammello, versare denaro.
La destinazione dei soldi
Il fatto che le risorse messe a disposizione degli Stati siano vincolate a destinazioni che facciano parte degli obiettivi complessivi dell’Unione europea (analogamente a quanto avviene per i Fondi Strutturali) è un fatto che può essere positivo, soprattutto se saranno destinate alla sanità o alla riconversione ecologica dell’economia.
Tuttavia, ciò che appare chiaro sin da ora è che il tutto verrà affidato all’iniziativa delle imprese e al mercato, a cui il settore pubblico dovrà fare da garante e facilitatore.
“Niente di nuovo sul fronte occidentale”, anche da questo versante.
Un’altra soluzione è possibile
Come diviene evidente ogni volta che si passi dai titoloni di prima pagina alla lettura degli articoli nel dettaglio, non si sta aprendo nessuna nuova epoca nella storia dell’Unione europea, la quale, quanto più percepisce la profondità della crisi del proprio progetto continentale, tanto più cerca di negarla dietro “ricchi premi e cotillon”.
Eppure la soluzione non sarebbe lontana, come da tempo chiedono centinaia di economisti e tutti i movimenti sociali: far scendere in campo la Banca Centrale Europea.
Rivendicando a gran voce due cambi di passo: a) la cancellazione della parte di debito pubblico degli Stati detenuta dalla Bce; b) il finanziamento diretto degli Stati da parte della Bce, analogamente a quanto fanno da sempre tutte le banche centrali dell’intero pianeta.
Questi due passi libererebbero risorse davvero straordinarie e permetterebbero l’avvio di scelte basate sul fiato lungo dell’interesse generale, invece che sul fiato corto dei profitti di mercato.
Certo, significherebbe abbandonare la dottrina liberista e le politiche di austerità.
Un’ulteriore buona notizia.