di Marco Bersani, Attac Italia.
Trenta pesos sono l’aumento del biglietto della metropolitana attuato dal governo Pinera, all’interno di un pacchetto di misure di austerità, che hanno provocato la sollevazione ancora in corso del popolo cileno.
Trenta años sono quelli trascorsi dal 1989, quando in Cile si svolsero le prime libere elezioni, dopo il plebiscito dell’anno precedente, che pose fine alla dittatura del generale Augusto Pinochet...
Sta tutto in queste cifre il senso profondo della rivolta popolare scoppiata quasi all’improvviso qualche settimana fa e che in breve tempo ha coinvolto tutto il paese in una vera e propria insurrezione generale.
Per comprenderne a fondo le ragioni, va tuttavia fatto un ulteriore passo indietro.
L’altro 11 settembre
Santiago e non New York. Carri armati nelle strade e soldati all’assalto della ‘Moneda’, il palazzo presidenziale, invece che aerei contro le ‘torri gemelle’. Il generale Pinochet e non il leader jihadista Bin Laden. Prima del 2001, l’undici settembre più conosciuto nella storia era quello cileno, quando un colpo di stato mise fine alla vita e al governo del presidente socialista Salvador Allende e consegnò il paese ad una feroce dittatura militare.
Dei fatti di quei giorni si sa tutto: l’11 settembre 1973, il generale Augusto Pinochet, sostenuto attivamente dalla Cia e dalle grandi multinazionali statunitensi, guidò il putsch militare contro il legittimo governo di Unidad Popular, sparse il terrore nel paese –in pochi giorni 4.000 morti o scomparsi, 80.000 arrestati, più di 200.000 fuggiti all’estero- e diede il via ad una quasi ventennale dittatura fascista.
Ciò che è meno noto è il fatto di come quel golpe non fu solo orchestrato dagli Stati Uniti per bloccare un’esperienza di orientamento socialista in America Latina o dalle multinazionali per fermare la nazionalizzazione di settori strategici dell’economia, bensì la premessa per la prima sperimentazione sul campo delle teorie economiche liberiste della “scuola di Chicago”.
“Progetto Cile”
Un tentativo di penetrazione era già stato tentato con l’avvio negli anni ’50 e’60 del ‘Progetto Cile’, ovvero una stretta collaborazione tra l’Università di Chicago e l’Università Cattolica del Cile per la formazione specialistica di giovani cileni laureati in economia.
Il progetto aveva il preciso scopo di educare un gruppo specifico di economisti ad una missione: salvare il Cile dal corso sbagliato che aveva seguito sino ad allora e reindirizzare la sua economia e la sua società, attraverso i principi dettati dalla scuola monetarista di Chicago.
Una strategia di lungo corso che approdò nel 1970 alla redazione di ‘El ladrillo‘ (‘Il mattone’) un voluminoso piano di riforme economiche e sociali da proporre per l’economia cilena, vista come paradigma di un intervento più globale per tutti i paesi ad economia arretrata.
Ma l’inaspettata vittoria alle elezioni del 1970 di Salvador Allende e la conseguente formazione del governo di Unidad Popular, con l’avvio di una serie di misure di orientamento socialista (nazionalizzazione delle imprese strategiche e del settore bancario, controllo totale dei movimenti dei capitali finanziari, aumento dei salari e redistribuzione delle ricchezze finalizzati alla crescita del mercato interno, aumento dei dazi doganali) bloccò sul nascere le possibilità di influenza del ‘think tank’ sulla politica economica cilena.
“El ladrillo”
Il colpo di stato fu il tappeto rosso (di sangue) che permise la discesa in campo dei ‘Chicago Boys’, e, da quel momento, il piano ‘El Ladrillo’ divenne il programma economico della dittatura fascista.
Un programma di riforme radicali in senso monetarista e liberista che, in breve tempo, comportò la privatizzazione del 90% delle imprese controllate dallo Stato (da 400 a 45) e del sistema bancario, la liberalizzazione del movimento dei capitali finanziari, l’eliminazione di quasi tutte le barriere commerciali, la fine del controllo dei prezzi e l’orientamento esclusivo dell’economia verso l’esportazione delle abbondanti risorse naturali interne. E, naturalmente, la privatizzazione dell’istruzione, della sanità e del sistema pensionistico, nonché politiche del lavoro indirizzate al rapido smantellamento delle organizzazioni sindacali, alla drastica riduzione dei salari e alla totale libertà di licenziamento.
Gli obiettivi e le strategie economiche liberiste di questa fase vennero direttamente sostenute da Milton Friedman, uno dei capostipiti della scuola di Chicago, che già nel marzo 1975, durante la prima delle sue frequenti visite nel Cile di Pinochet, consigliava una cura “elettroshock” per la società con l’obiettivo di mettere sotto controllo l’inflazione.
Libero mercato e terrore illimitato
In quell’occasione, Milton Friedman tenne un discorso intitolato “La fragilità nella libertà” (sic!) in cui enunciò le caratteristiche peculiari che accomunano e differenziano le modalità secondo le quali sono strutturati il regime militare e il libero mercato: “La struttura militare si distingue per essere una tipica organizzazione top-down: il generale ordina al colonnello, il colonnello ordina al capitano e così via. Il mercato, invece, è una tipica organizzazione bottom-up. Il cliente entra nel negozio e ordina al dettagliante, il dettagliante invia l’ordine su per la catena fino al produttore e così via. I principi di base dei militari, dunque, sono esattamente il contrario della struttura organizzativa del libero mercato o di una società democratica. È stupefacente che per gestire l’economia i militari cileni abbiano adottato la struttura bottom-up invece della struttura top-down usata fino ad allora”[1].
Discorso ancora oggi utilizzato, in un’impossibile arrampicata sugli specchi, dai seguaci della scuola liberista come prova della distanza tra il loro teorico e il regime fascista di Pinochet, quando in realtà si trattava di una dichiarazione di empatico stupore per quello che più volte in seguito definirà il “miracolo cileno”.
Come più volte denunciato da Orlando Latelier, ex-ministro degli esteri ed ex-ambasciatore negli Stati Uniti per il governo Allende, assassinato il 21 settembre 1976 a Washington: “Questa nozione così comoda, secondo la quale violenza della dittatura e politiche economiche liberiste abbiano un legame del tutto casuale, permette a questi portavoce finanziari di riempirsi la bocca di diritti umani. Il piano economico andava imposto, e nella situazione cilena si poteva faro solo con il terrore. La repressione per la maggioranza e la libertà economica per i piccoli gruppi privilegiati sono in Cile due facce della stessa medaglia. C’è armonia intrinseca tra libero mercato e terrore illimitato.”[2].
Quali fossero i risultati di questo miracolo, i cileni lo sperimentarono direttamente già nel primo decennio: con un taglio della spesa pubblica del 50%, vennero in pratica distrutte l’istruzione obbligatoria e la sanità pubblica, mentre il tasso di disoccupazione passò dal 4,3 al 22%, i salari crollarono del 40%, e raddoppiò la fascia di popolazione sotto la soglia di povertà (dal 20 al 40%).
Un decennio di saccheggio delle risorse collettive e di enorme trasferimento della ricchezza collettiva verso la parte alta della società.
Da La Concertacion a oggi
La Concertación de Partidos por la Democracia più conosciuta come Concertación, ebbe la sua origine come Concertación de Partidos por el No nel 1988, quando si tenne il Plebiscito nazionale, voluto da Pinochet per ottenere un ulteriore mandato di 8 anni. La vittoria del NO spinse la coalizione a divenire alleanza politica fra partiti di centro e di sinistra, alleanza che riuscì a governare per oltre 20 anni (1990-2010), ma che portò avanti senza soluzione di continuità il modello economico sociale e culturale neoliberale, persino approfondendolo.
L’ultimo decennio ha visto l’alternarsi di governi di destra (Pinera, 2009-2013) e di centro sinistra (Bachelet, 2013-2017), fino all’attuale governo (ancora Pinera), senza che alcun nodo di fondo -dalla Costituzione ereditata dal regime fascista di Pinochet alle privatizzazioni, dalla diseguaglianza sociale al saccheggio delle risorse da parte delle multinazionali- sia stato affrontato.
No es depresion, es capitalismo
L’insurrezione cilena non poggia dunque su trenta pesos di aumento del biglietto della metropolitana, bensì su trenta anni di “democrazia” che in nulla hanno intaccato la dittatura del libero mercato, introdotta dai carri armati di Pinochet.
Bastano alcuni dati per comprendere la profondità della sollevazione e la sua straordinaria determinazione anche di fronte ad un esercito tornato, per la prima volta dal 1973, nelle piazze, dove ha usato e sta usando una violenza estrema, con uccisioni, ferimenti, torture e repressione.
Secondo la Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal), il 50% della popolazione cilena possiede il 2,1% della ricchezza nazionale, mentre l’1% più ricco del Paese ne concentra su di sè il 26,5%.
Secondo la classifica della Banca mondiale basata sull’indice Palma – l’indicatore che misura il divario nei redditi tra il 10% più ricco e il 40% più povero della popolazione – il Cile è il secondo stato più diseguale al mondo, preceduto soltanto dal Qatar.
Secondo l’Ocse, il Cile è ultimo tra i paesi membri per l’impatto delle misure pubbliche (imposte, sussidi, detrazioni fiscali, incentivi etc) sulle disuguaglianze.
Oggi come allora, nel Cile tutto è privatizzato, dalla scuola, alla sanità, dalla previdenza al welfare, ai beni comuni (acqua, energia, trasporti) e, tanto nei settori industriali (rame, legname, energia, salmone) quanto nella distribuzione e nel commercio, dominano le multinazionali.
Il popolo cileno non solo è povero, ma sta affogando nel debito privato. Infatti, per garantirsi diritti fondamentali come istruzione, salute e previdenza i cileni si sono in questi anni indebitati a dei livelli non più sopportabili.
Secondo i dati governativi, circa 700mila studenti si sono indebitati col CAE (Credito con Aval del Estado), e, contando altri programmi di finanziamento simili, si sfonda il milione di giovani indebitati. In un paese di 17,6 milioni di abitanti, sono quasi 4 milioni i cileni che non riescono a far fronte ad un debito e risultano morosi, e il 22% di questi sono ragazzi di 18-29 anni.
E la Legge fondamentale dello Stato continua ad essere quella prodotta dalla dittatura, come ben sanno i Mapuche, considerati dalla stessa terroristi in quanto tali!
Cile despertò
Di fronte a un’insurrezione popolare senza precedenti, il presidente Pinera ha affidato l’ordine pubblico al Capo della Difesa Nazionale Javier Iturriaga Del Campo (figlio di Dante Iturriaga e nipote di Pablo Iturriaga, entrambi torturatori del regime fascista). Si spiegano così il coprifuoco, lo stato d’emergenza e la ferocissima repressione con cui sono state affrontate le proteste popolari.
Ma il popolo ha risposto: lo scorso 23 ottobre, 1,5 milioni di persone hanno dato vita alla più grande manifestazione mai realizzatasi nel Paese, e con migliaia di chitarre hanno cantato “Vivir en paz” di Victor Jara (cantautore brutalmente assassinato da Pinochet).
Pinera, nel tentativo di salvare la sua poltrona, ha ora ritirato il coprifuoco e lo stato d’emergenza, ha gattopardescamente cambiato sette ministri e ha annunciato riforme sociali.
Tentativi di patetica anestesia, cui il popolo cileno ha risposto con lo sciopero generale illimitato e la mobilitazione permanente, finché non otterrà la caduta del governo, il ritiro delle leggi antipopolari e un nuovo processo costituente dal basso.
Perché, come dicono nelle piazze di Santiago e Valparaíso, “l’unica paura che abbiamo è che torni la normalità”.
NOTE:
[1] Ensalco M., Chile under Pinochet: recovering the truth, Philadelphia, University of Pennsylvania Press, 2000.
[2] The Nation, 28 agosto 1976.