Come facciamo del male continuando a vivere bene - #altreletture#1

di Maurizio Bongioanni.

La nostra è una società segnata dal disimpegno morale, ovvero da quella particolare propensione dell’essere umano a sottrarsi temporaneamente alla propria morale senza sentirsi in colpa, come se questa fosse un interruttore che si può accendere o spegnere a piacimento. Dall’industria dell'intrattenimento a quella delle armi, dal mondo aziendale alla sostenibilità ambientale, dal terrorismo alla pena capitale, lo psicologo canadese Albert Bandura scandaglia gli ambiti in cui si muove questo disimpegno e lo descrive nel libro “Disimpegno morale – Come facciamo del male continuando a vivere bene” ...  

{jcomments on}Per Bandura una società che si dice civile è capace di autogestirsi: più gli individui sanno autoregolarsi e autosanzionarsi in caso di infrazione, più la società è equa ed equilibrata. È il contrario di una società coercitiva che deve mettere in campo una rigida sorveglianza e un sistema di sanzioni punitive esteso per reprimere la mancata obbedienza.

Ma se nelle sedicenti società civili il prezzo delle libertà individuali non è compensato da altrettanta capacità autoregolativa, subentra il disimpegno morale: la capacità dell’individuo di comportarsi male continuando a vivere in pace con sé stesso, soprattutto quando le conseguenze ricadono sulla collettività.

Ma come invertire la rotta? Due le possibili risposte: ripristinare il senso di responsabilità individuale e l’empatia verso l’Altro.

La Storia è piena di atti di deresponsabilizzazione individuale. I comandanti dei campi di concentramento nazisti si assolvevano da ogni responsabilità personale per le loro atrocità. Nelle sue memorie, Adolf Eichmann, ovvero colui che gestì le deportazioni di massa degli ebrei nei campi di sterminio, si definiva semplicemente “un funzionario che obbediva ai comandi dei suoi superiori”.

Le gerarchie funzionano un po’ come una fabbrica: tanti operai che lavorano alacremente ciascuno sulla propria funzione, così concentrati nel portare a termine il proprio compito da perdere di vista il prodotto finale. Nelle esecuzioni dei condannati a morte, ad esempio, le mansioni sono in genere suddivise tra una squadra di tecnici: c’è chi si occupa di applicare i tubi intravenosi, chi di collegare gli elettrodi e chi di immobilizzare il condannato. Nel libro, Bandura riporta un’intervista a un addetto che ha raccontato di aver preso parte a centoventisei esecuzioni occupandosi ogni volta solo ed esclusivamente di legare la gamba destra del condannato alla sedia elettrica. Ciò spiega quanto fosse più semplice per il tecnico condividere la propria responsabilità individuale con l’intera squadra, con il sistema.

Ma la responsabilità può anche essere “mediata”: nelle guerre moderne si conducono battaglie con armi di distruzione di massa pilotate da lontano, dove droni guidati dagli Stati Uniti individuano e bombardano obiettivi in Iraq o in Afghanistan a migliaia di chilometri di distanza. Una guerra senza volto, dove soldati americani sterminano meccanicamente famiglie di civili prima di tornarsene dalla propria, una volta finito il turno. Anche il linguaggio si è piegato alla deresponsabilizzazione (i civili uccisi per sbaglio diventano per esempio un “effetto collaterale” della guerra) e in alcuni contesti è usato con tale brutalità da divenire esso stesso una potente arma di distruzione: basti pensare al dilagante fenomeno on-line dell’hate speech, la comunicazione ostile nelle sue varie declinazioni e conseguenze. Anche nei peggiori casi di violenza verbale, la dimensione virtuale deresponsabilizza, camuffa, distorce; al riparo di una tastiera la distanza tra azione e responsabilità, tra scelta e conseguenza delle parole può diventare molto ampia.

L’ambientalismo sembrerebbe il settore nel quale è più difficile sottrarsi alle proprie responsabilità individuali. Per sua natura, infatti, l’ambiente è condizionato da tante piccole singole azioni. Eppure questa consapevolezza non argina il disimpegno morale, in quanto le evidenze scientifiche sono continuamente misconosciute e giudicate non attendibili. Il caso più emblematico è sicuramente quello del cambiamento climatico, dove alle prove oggettive che collegano responsabilità umana e riscaldamento globale si contrappongono critiche e indifferenza (anche politica). Generalmente i negazionisti del clima sono individui che vedono nell’ambientalismo un tentativo di limitare la propria libertà individuale e che non considerano i benefici personali e collettivi che un comportamento sostenibile produrrebbe. 

Infine l’empatia. Bandura la chiama “reazione emotiva alle esperienze degli altri”. Diversi studi psicologici affermano che l’empatia non è innata ma che comunque “l’individuo nasce equipaggiato delle strutture biologiche necessarie per la sua attivazione”, riporta l’autore. Sono poi il contesto sociale e il livello delle esperienze che danno forma e sostanza alle reazioni empatiche: “quando le persone sono felici e serene, esse trattano affettuosamente gli altri e ciò genera sentimenti positivi intorno a sé, ripagati con lo stesso grado di positività. Viceversa sofferenza, rabbia, angoscia, dolore preannunciano esperienze sgradevoli”.

Se la deumanizzazione delle vittime è stata la tattica principale messa in atto dai nazisti nei confronti degli “ebrei parassiti” – e la stessa messa in atto spregiudicatamente contro gli immigrati di oggi - per contro, l’umanizzazione genera empatia e mette fine all’odio e alle violenze. Bandura cita un episodio accaduto durante la Prima Guerra Mondiale, quando vi fu un momento di riappacificazione tra le forze alleate e quelle tedesche che si fronteggiavano nelle Fiandre. Era la vigilia di Natale e i soldati tedeschi adornarono il loro parapetto con alberi pieni di candeline illuminate, accompagnando quella scena surreale con una canzone natalizia. Posero un cartello rivolto ai nemici con su scritto “You no fight, we no fight”. I soldati Alleati, invece di approfittarne, risposero scrivendo “Merry Christmas”. I Tedeschi uscirono disarmati dalle loro trincee e lo stesso fecero gli Alleati. Per la prima volta, due fazioni che fino al giorno prima si sparavano a morte, ora si scambiavano sigarette, condividevano razioni di cibo e storie della propria vita. Non solo: improvvisarono un pasto collettivo, un concerto di Natale e una partita a pallone. Scesa la notte, ciascun raggruppamento fece ritorno nelle proprie trincee. Gli ufficiali di campo ordinarono immediatamente di riprendere le ostilità ma i soldati si rifiutarono: “Sono bravi ragazzi, non possiamo farlo” dicevano. Quei nemici avevano assunto un volto. E così, per evitare di uccidersi a vicenda, spararono in alto per ore, sprecando tutte le munizioni. L’unico modo per riprendere le ostilità fu quello di sostituire quei battaglioni con altri, nuovamente disumanizzati.

#altreletture# è la rubrica di Altritasti dedicata ai consigli di lettura.

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