di Guido Viale, da "Slessico familiare".
Concorrenza vuol dire correre insieme, tra pari (correre ha nella sua radice il verbo greco reo, scorro. Panta rei, tutto scorre, diceva Eraclito). Un concorso è o dovrebbe essere un confronto tra eguali per individuare i più adatti a ricoprire un ruolo o una funzione. Ma concorrere significa anche portare il proprio contributo a un processo comune ...
Nel caso della concorrenza economica quel processo dovrebbe essere l’allocazione ottimale delle risorse, il clou dell’ideologia della mano invisibile di Adam Smith, secondo cui perseguendo il proprio interesse personale ciascuno contribuisce al benessere di tutti: un caso particolare di astuzia della ragione (Hegel), che è poi la vecchia Provvidenza cristiana; ovvero di serendipity: il processo che porta a ottenere dei risultati positivi diversi da quelli che ci si era prefissi.
Competizione, invece, viene dal verbo latino peto: chiedere per avere, cercare di ottenere. E’ un processo di appropriazione a spese di altri, la cui premessa è che non siano uguali né le condizioni di partenza né quelle di arrivo: competitivo è chi ha la forza di appropriarsi di ciò che altri non sono in grado di difendere: il vincitore prende tutto. Nell’inglese, la lingua degli economisti, non ci sono due termini; c’è solo competition. Forse anche per questo si è assistito a un progressivo slittamento lessicale dal termine concorrenza, che non viene usato quasi più, a quello di competitività, che occupa ormai il centro del discorso economico, politico e giornalistico.
Ciò registra, anche al di fuori di una precisa consapevolezza di chi vi fa ricorso, il passaggio da un regime economico in cui il principio regolatore “liberista” dell’attività delle imprese è la concorrenza tra pari (ancorché continuamente violata da situazioni di monopolio, di oligopolio o da asimmetrie informative che falsano le posizioni di partenza) a un regime sociale in cui la posta in gioco dell’agire è l’appropriazione di risorse altrui: patrimoni, ricchezze naturali, saperi, mercati, denari, redditi, vite…
Competitivo è chi si mette, o viene messo, nella condizione di poterlo fare. E’ il ritorno alla grande di quella che Marx chiamava accumulazione primitiva: un processo che i suoi esegeti avevano per molto tempo relegato all’epoca delle recinzioni (enclosure): la fase del capitalismo che aveva preceduto l’estrazione del plusvalore assoluto (con la moltiplicazione e il prolungamento delle giornate lavorative) e del plusvalore relativo (con la meccanizzazione della produzione).
Ma è un processo che per diversi studiosi contemporanei, invece, non è mai venuto meno; ha continuato ad affiancarsi al meccanismo classico di estrazione del valore dal lavoro e da tempo è tornato a ricoprire un ruolo centrale sia nel campo delle risorse naturali che in quello finanziario, in quello fiscale, in quello del debito, in quello dei saperi: tanto da connotare l’intero sistema con il termine di estrattivismo.
Molti studiosi, però, non hanno collegato quello scivolamento lessicale a ciò che vi sta sotto: continuano a usare i termini concorrenza e competizione indifferentemente (niente di male se fosse una mera questione terminologica) e trattano l’economia globalizzata in cui siamo immersi come un sistema fondato su una concorrenza universale. I termini neoliberismo e neoliberalismo con cui si suole indicare non solo un’ideologia, ma anche la forma assunta dal capitalismo contemporaneo, sono in gran parte il frutto, ma anche l’origine, di questo equivoco. Non c’è niente di liberista, cioè di affidato alle “libere forze del mercato” – e meno ancora di liberale, cioè posto a tutela delle libertà dell’individuo – negli attuali assetti economici: gli Stati, e con essi le leggi, la politica, la potenza della finanza e, soprattutto, l’esibizione e l’uso della forza, giocano un ruolo fondamentale e insostituibile nel determinare le posizioni di partenza e quelle di arrivo nelle diverse forme di competizione: la quale si sviluppa soprattutto nella corsa per accaparrarsi il sostegno necessario a vincere un gioco il cui fine è l’appropriazione privata di ciò che è comune, o pubblico, o diffuso, o in mano altrui, o nel corpo (bios) altrui.
D’altronde, come aveva fatto notare Luciano Gallino, i poteri della finanza e del grande capitale odierni non sono il frutto di una deregolamentazione, bensì i beneficiari di una quantità di regole sempre più complesse con cui i governi di tutto il mondo hanno messo nelle loro mani la possibilità e il diritto di fare quello che vogliono; basta pensare alle centinaia di pagine che compongono la bozza di un accordo come il Ttip per rendersene conto. Meno che mai c’è qualcosa di nuovo (neo) in questa corsa all’appropriazione: è un processo vecchio come la storia umana.
Tratto da: Slessico familiare, di Guido Viale, Edizioni Interno4, 2017. Un libro che vuole essere una piccola cassetta di attrezzi per aiutare a guardare il mondo e le sue potenzialità di trasformazione da un punto di vista diverso da quello del pensiero dominante. Le parole della politica, ma anche quelle dell'economia, della psicologia, del giornalismo, dell'accademia, sono logorate dall'uso che ne fa la cultura mainstream, che è da sempre quella delle classi al potere.
Dal patriarcato al capitalismo finanziario, dalla gabbia in cui è stato intrappolato l'individuo contemporaneo ai problemi che l'arrivo di tanti stranieri porta con sé, dal cinismo che anima un'economia che saccheggia il pianeta alle prospettive aperte da un modo alternativo di concepire il nostro rapporto con il vivente e la natura, questo testo invita a rivisitare gli schemi sottostanti a molti dei nostri pensieri.
Non è facile, ma si può fare: a patto di voler costruire insieme una prospettiva di vita più sana, più ricca di esperienze, più soddisfacente per tutti.
Con questo libro Guido Viale prova a stilare un repertorio per i tempi a venire, cercando di dare nuove prospettive a parole usurate con cui tutti conviviamo ma che meritano nuove interpretazioni, nuova linfa vitale.