di Guido Viale*.
Nella ricorrenza, troppo spesso puramente formale, della “Giornata della Terra”, possiamo considerare un grosso passo avanti il fatto che il movimento ormai mondiale Fridays for Future, cresciuto intorno alle comparse mediatiche di Greta Thunberg, insieme al più recente Extinction Rebellion, abbiano posto all’ordine del giorno del pubblico – in gran parte tenuto all’oscuro da media, politici e accademia della gravità e dell’urgenza del problema, soprattutto in Italia – il tema dei cambiamenti climatici, ormai prossimi a una deriva irreversibile e catastrofica per la vita umana sul nostro pianeta. Una specie di “lettera rubata” del nostro tempo che, come quella del racconto di Poe, non riusciamo a vedere proprio perché ce l’abbiamo davanti a noi.
“Non c’è più tempo”: mancano pochi anni al punto di non ritorno: dodici per gli scienziati dell’IPCC, solo cinque per James Anderson che analizza l’evoluzione dei ghiacci sulla Terra. L’umanità tutta, i suoi governi, il suo establishment, i suoi membri arrivano completamente impreparati a questa scadenza, nota da decenni. Non è “l’inerzia” dei governi il nostro principale nemico, bensì il fatto che sia loro che noi continuiamo a bombardare il pianeta con tutte le cose che ci stanno portando alla catastrofe. Invece dovremmo tutti considerarci in guerra: non “contro il clima”, ma contro le cose che facciamo o subiamo tutti i giorni. Ma per andare in guerra occorre riconvertire in tempi rapidi sia la produzione che il nostro stile di vita, dotandoci da subito delle armi necessarie a combatterla e vincerla. Lo avevano fatto in tempi strettissimi tutte le potenze impegnate nella Seconda Guerra Mondiale. Lo si può e deve fare anche adesso, con una mobilitazione generale.
In mezzo a tante cose giuste Greta fa un errore, più volte ripreso dai suoi giovani seguaci: “I politici sanno che cosa bisogna fare, ma non lo fanno”. Non è vero: i politici non sanno assolutamente che cosa fare, non ci hanno mai veramente pensato (pensano ad altro, al PIL, alla crescita, alle grandi opere e ai grandi eventi, al loro elettorato, alle tangenti) perché i problemi da affrontare sono troppo grandi per loro. Per questo preferiscono nascondere la testa sotto la sabbia...
Certo, gli scienziati sono ormai (quasi) tutti d’accordo sull’origine antropica e l’imminenza del disastro e le tecnologie necessarie a decarbonizzare il pianeta sono ormai disponibili. Ma la transizione comporta sconvolgimenti radicali di tutti gli assetti sociali che né i politici, né il mondo delle imprese e meno che mai la generalità dei cittadini sanno come affrontare. Ma è ora di cominciare a delineare a grandi linee i passi da compiere; la loro definizione non può essere affidata solo ai tecnici, come quelli che l’economista liberista Jeffrey Sachs ha convocato a Milano il 2 e 3 aprile per discutere di come decarbonizzare il mondo. Manca in tutto questo la politica, quella vera, cioè il coinvolgimento e l’autogoverno dei cittadini in un rapporto dialettico tra alto (i Governi) e basso (le comunità locali). Manca una road map che occorre mettere in discussione senza lasciarsene spaventare. Qui si prova a indicarne almeno alcuni passi:
– Dichiarare, come hanno già fatto alcune città e università, lo stato di emergenza climatica. Vuol dire bloccare il più rapidamente possibile tutte le attività che producono gas climalteranti, dando la priorità a tutte quelle che concorrono alla decarbonizzazione.
– Garantire un reddito certo a tutti i lavoratori che perderanno il lavoro – o non lo troveranno – nelle imprese soggette a chiusura, in attesa di una loro ricollocazione in imprese e progetti impegnati nella transizione energetica.
– Spostare tutti gli investimenti e gli incentivi pubblici diretti dalle attività legate ai fossili a quelle legate alla transizione. Non si tratta di noccioline: significa, nell’immediato, bloccare produzione e importazione di auto individuali e di barche da diporto, comprese le crociere, e convertire gli impianti per produrre mezzi di trasporto collettivo o condiviso (l’elettrico, di per sé, garantisce scarsi benefici climatici, anche se emette meno inquinanti) e impianti di generazione elettrica alimentati da fonti rinnovabili; bloccare tutte le centrali termoelettriche e tutti i consumi energetici superflui; trasformare nel più breve tempo possibile involucri e alimentazione energetica di tutti gli edifici; convertire agricoltura e alimentazione alle produzioni biologiche e di prossimità, riducendo il consumo di carni, ma soprattutto di acqua e lo sfruttamento senza rigenerazione dei suoli; ridurre al minimo trasporto aereo, vacanze esotiche, import-export di merci superflue, traffico transoceanico.
– Fissare delle sanzioni per gli Stati e le corporation che non si adeguano a queste esigenze con piani dettagliati, sottoponendoli a un monitoraggio sovranazionale. Altro che accordi di Parigi…
– Coinvolgere il numero maggiore possibile dei residenti di ogni comunità nella definizione, nella progettazione e nella realizzazione a livello locale di questi obiettivi, perché le misure per farvi fronte non possono essere determinate in modo centralistico dagli Stati. E’ a questa attività, oltre che a fare pressione sui governi, che dovranno dedicarsi fin da subito le diverse espressioni che assumerà il movimento per la salvezza climatica.
La transizione che ci attende non è un’opzione tecnica, ma una rivoluzione dei consumi, degli stili di vita, degli assetti produttivi, dei rapporti di potere i cui elementi determinanti sono il conflitto e la partecipazione; per questo sono inaccettabili dall’establishment al potere, come ha cercato di spiegarci Naomi Klein nel suo libro “Una rivoluzione ci salverà”. Oggi sembrano cose impossibili anche solo da concepire (e Greta viene trattata come una “deficiente”: da compatire o da lusingare; senza conseguenze). Tra pochi anni sembreranno ancora del tutto insufficienti.
*Leggi l'originale su Pressenza