Gorka Larrabeiti (Rebelion) intervista Stefano Liberti, autore del libro "Land grabbing. Come il mercato delle terre crea il nuovo colonialismo".
Il land grabbing si compone a mosaico: un puzzle che passa dall’Etiopia, El Dorado degli investitori, all’Arabia Saudita, dove gli sceicchi del Golfo intervengono nelle aste per abbassare il prezzo della terra africana. Entra nei palazzi istituzionali di Roma (FAO) e vede la giocoleria dialettica che giustifica queste politiche, ode il suono dei movimenti contadini resistenti; vola fino a Chicago Board of Trade, la Borsa mondiale che fissa il prezzo del cibo, si perde nei campi di grano dell'Iowa, fino al Brasile, regno dell’agroalimentare, e torna in Tanzania frontiera dei biocarburanti ...
Pezzo per pezzo, il puzzle va rilevando un profilo, una figura in uno sfondo molto inquietante, e non per questa facile ossessione per l'ombra del Drago cinese, ma perché si ha la sensazione di leggere la cronaca di una mattina affamata e predatrice: alla notizia che il raccolto di mais degli Stati Uniti sarà scarso, oggi ci sono persone che applaudono. Questo libro ci racconta un altro episodio dello scontro brutale tra concezioni antropologiche, così ben descritte da John Berger in “Puerca Tierra”. Da un lato, il tempo unico del Capitalismo, che non ha limiti e che ruba di promessa in promessa: il Progresso, il presente; dall'altro, il tempo circolare e resistente dei contadini, che si basa sulla tradizione per garantire giorno dopo giorno la sopravvivenza, il presente futuro.
In quel racconto magistrale, Lev Tolstoj c’insegnava che la terra di cui ha bisogno un uomo è poca, molto poca; in questo libro-mosaico Liberti ci rivela che il Capitale, se lo si lascia fare, prende tutto, tutto, tutto.
Con quale scopo si accaparrano terre? Quante sono?
Stefano Liberti: Il fenomeno del land grabbing – letteralmente accaparramento delle terre – è iniziato intorno al 2008, dopo la cosiddetta crisi alimentare, che ha visto salire i prezzi dei generi alimentari. Da quel momento, alcuni paesi ricchi di liquidità ma poveri di terre, come i paesi della Penisola arabica, hanno cominciato a lanciare politiche di acquisizione di terre all'estero, prevalentemente in Africa, per garantire la sicurezza alimentare alla propria popolazione. Milioni di ettari sono stati acquisiti per produrre alimenti che vengono poi esportati. Una stima precisa è difficile, giacché non esiste un database preciso e spesso questi accordi vengono negoziati direttamente da compagnie private con i governi dei paesi che danno via le terre. Secondo una stima al ribasso, negli ultimi tre anni sarebbero stati ceduti ad attori privati circa 60 milioni di ettari di terra già pubblica, una superficie pari a quella totale della Francia.
Chi sono i nuovi protagonisti di questo neocolonialismo?
I protagonisti di questa corsa alle terre non sono solo le compagnie private degli stati sopracitati, ma anche gruppi normalmente impegnati nel mercato finanziario. Molti gruppi che prima investivano nel mercato azionario si sono spostati sulla terra, considerato un bene più sicuro e meno soggetto agli andamenti altalenanti delle Borse. Gran parte di questi gruppi, animati da ex golden boys e golden girls di gruppi finanziari come Morgan Stanley o Goldman Sachs, sono private equity fund, società non quotate in Borsa in cui investitori privati scommettono sul buon andamento dell'investimento in un periodo di tempo relativamente breve. I buoni ritorni di questi investimenti sono garantiti prevalentemente da due aspetti: il canone di affitto bassissimo a cui sono cedute le terre e l'insignificante costo della manodopera.
Perché considera i governi locali come i piú colpevoli di questo fenomeno? Non le sembra ugualmente colpevole l'acquiescenza dei governi occidentali in tutto ciò?
I governi locali sono quelli che in ultima istanza danno via la terra in cambio di una vaga promessa di sviluppo, se non addirittura in cambio di qualche bustarella. Anche se volessero, i governi occidentali non hanno molta voce in capitolo in questa questione. Altro discorso è mettere in evidenza le responsabilità di quelle istituzioni internazionali – come la Banca Mondiale e la FAO – che avrebbero nello statuto l'obiettivo di ridurre la povertà e alleviare il problema della fame nel mondo. Queste organizzazioni hanno attivamente promosso questi investimenti in agricoltura, sostenendo che potevano essere considerati un volano per lo sviluppo di un settore che negli ultimi vent'anni aveva sofferto di scarsissimi investimenti. Il problema è che le ricadute sui paesi in cui vengono fatti questi investimenti sono scarsissime: sulla terra data in affitto vengono coltivati prodotti destinati all'esportazione o colture per i cosiddetti agro-carburanti. In definitiva, quindi non si incrementa la sovranità alimentare dei paesi coinvolti, ma la si intacca. Basti pensare al caso dell'Etiopia, dove al momento alcune regioni sono colpite da carestia. Ebbene, l'Etiopia è uno degli stati africani che più attivamente hanno cercato di affittare porzioni della propria terra a investitori stranieri, come i sauditi, che poi esportano la stragrande maggioranza dei prodotti.
"La terra è merce", dice uno degli intervistati. Questo fenomeno che descrive apre una nuova fase del capitalismo finanziario?
Senz'altro. Come accennavo prima, la corsa alle terre è cominciata dopo la crisi dei mutui subprime e il crollo della Borsa di Wall Street nel 2007. E' stato in quel momento in cui enormi quantità di capitali si sono spostati dal mercato azionario classico alle cosiddette commodities alimentari, prodotti alimentari di base, come grano, mais, zucchero e soia. Il che ha fatto aumentare il valore di questi prodotti. Il land grabbing è in parte conseguenza di questo sommovimento a livello finanziario, dal momento che grandi gruppi del capitalismo finanziario sono oggi coinvolti nella corsa alle terre.
Questo è il primo reportage al mondo sull'allarmante e dilagante fenomeno del land grabbing. Perché secondo lei si presta cosí poca attenzione mediatica a questo fenomeno?
E' un fenomeno che va indagato nel profondo, difficile da cogliere in modo esaustivo con i tempi rapidi del giornalismo di oggi. Forse è per questo che non è ancora oggetto di attenzione mediatica. Io ho dovuto girare vari paesi in quattro continenti nel tentativo di dare una forma complessiva alla questione. Bisogna poi considerare un'altra questione: si tratta di un fenomeno relativamente nuovo.
Nel suo libro precedente, “A Sud di Lampedusa”, raccontava dell'immigrazione africana. Come incide il land grabbing sui flussi migratori?
Non parlerei di un'incidenza diretta. Certo, l'accaparramento delle terre produce inevitabilmente una riduzione delle risorse e delle terre a disposizione delle popolazioni locali, e accelera l'esodo delle popolazioni rurali verso i centri urbani. Parlerei però più di un'emigrazione interna ai paesi, che poco ha a che vedere con i flussi internazionali, su cui viaggiano invece perlopiù persone appartenenti ai ceti medi urbani.
C'è una dichiarazione di Robert Rodrigues (p. 198) che fa rabbrividire. Rodrigues annuncia una nuova fase geopolitica che altri definiscono come un neocolonialismo. Secondo lei, è esagerato dire che sta finendo l'era del petrolio e cominciando la battaglia globale per gli agrocombustibili?
Il petrolio è per definizione una fonte di energia esauribile. Gli agrocombustibili avranno un ruolo nel futuro energetico del pianeta, così come altre forme di energia rinnovabile. Il problema degli agrocombustibili, soprattutto quelli utilizzati attualmente, è che sottraggono terra alle colture destinate all'alimentazione, facendo diminuire lo spazio per l'agricoltura tradizionale e facendo aumentare il prezzo dei generi alimentari e delle terre.
Il suo libro descrive anche una battaglia antropologica per l'agricoltura. Due modelli contrapposti. Da un lato il modello incentivato dalla Banca Mondiale e dalle grandi organizzazioni internazionali (grandi estensioni, monoculture, "opportunità, sviluppo, produttività”); dall'altro, organizzazioni di piccoli produttori che parlano di "rapina, neocolonialismo, diritti violati". Dopo aver sentito e approfondito il dibattito fra entrambi i punti di vista, a quali conclusioni è giunto ?
La mia conclusione è che questi due modelli non sono conciliabili. Sono in competizione tra loro, perché si contendono una risorsa anch'essa finita, che è la terra. Il primo modello – che è quello delle grandi aziende commerciali – ha come punto di riferimento la quantità, i mercati stranieri, le cosiddette economie su scala. Il secondo, quello dei piccoli produttori, ha con la terra un rapporto più profondo, che non è di puro sfruttamento. Non è dimostrato che, sul lungo periodo, il primo assicuri una maggiore quantità di cibo del secondo, perché il primo (che usa pesticidi in modo esteso e tende a spremere la terra al massimo) impoverisce i terreni e li rende nel lungo periodo meno produttivi.
Lungo le pagine del libro si sentono le voci di Via Campesina, Sem Terra ma anche dei campesini etiopi, tanzaniani. Quale le è sembrata la più grossa difficoltà che affrontano questi movimenti e questi individui e quale il più saggio modo di lottare contro questo cambiamento epocale che vogliono imporci sull’agricoltura?
La maggiore difficoltà di questi movimenti è la mancanza di mezzi per far passare il proprio punto di vista e opporsi alla visione dei fautori del modello di sviluppo basato sulla fattoria commerciale e il land grabbing. Nonostante questa mancanza di mezzi, questi gruppi si stanno consorziando e sono riusciti in parte ad affermare le proprie istanze: all'ultimo vertice del comitato per la sicurezza alimentare mondiale, organo della FAO, hanno raggiunto l'intento di moderare la posizione iniziale dell'organizzazione, già molto schierata a favore degli investimenti stranieri mirati ad accaparrare le terre.
Tradotto per TLAXCALA da Gorka Larrabeiti editato da Alba Canelli.