di Andrea De Tommasi.
L’umanità utilizza cento miliardi di tonnellate all’anno di materiali, tre volte il quantitativo di cinquant’anni fa, con prospettive di ulteriore crescita. La risposta nelle tre R: riuso, riciclo, riduzione dei consumi...
Negli ultimi anni una serie di fattori hanno mostrato che il modello economico lineare, che porta dalle materie prime alla discarica, presenta sempre più problemi: scarsità e prezzi crescenti delle risorse, difficoltà di approvvigionamento, protezionismo sulle materie prime per preservare le riserve strategiche, produzione e costi di gestione dei rifiuti alle stelle.
Nel frattempo, abbiamo superato collettivamente la soglia di 100 miliardi di tonnellate di materiali l’anno di materiali consumati per soddisfare i nostri bisogni e desideri, sia quelli necessari che quelli banali (beni di consumo come fast fashion e articoli usa e getta). Solo cinquant’anni fa, secondo il Circularity gap report, questa cifra era un terzo di quella attuale. Il consumo materiale ha avuto un ruolo determinante nell’innalzare gli standard di vita nel secolo scorso, ma è stato anche distribuito in modo diseguale tra gli Stati e in più ha avuto un impatto tremendo dal punto di vista delle emissioni. Considerando la crescita demografica globale (oltre 9 miliardi nel 2050) e l’espansione della classe media (5 miliardi nel prossimo decennio), è naturale chiedersi se in futuro ci saranno risorse per tutti e quale pressione eserciteremo sull’ambiente.
Ci sono due assunti per abbandonare il modello lineare: uno più utopico, quello della decrescita, e uno più realistico, quello dell’economia circolare, in cui l’output negativo, lo scarto, il rifiuto e la materia inutilizzata diventano la base di partenza della produzione. Con un’avvertenza: la gestione dei rifiuti rappresenta solo una metà del modello circolare, la vita dei prodotti rappresenta l’altra metà. Per questo la moda, la fast fashion in particolare, e l’obsolescenza programmata sono due nemici del modello circolare.
Con Cradle to cradle, l’architetto William McDonough e il chimico Michael Braungart (si veda anche l’intervista data a Karoline Rörig) introducono nel dibattito economico il principio delle tre “R” (Reuse, reduce, recycle). È l’idea che “limitare i danni” non sia abbastanza, che è possibile spostare i consumi verso prodotti e servizi che utilizzano meno materiali. Ora, a che punto siamo? Si può dire, sintetizzando, che l’economia circolare è più avanti in Europa, sta prendendo avvio negli Stati Uniti, ha esperienze d’avanguardia in Cina (affiancando però pratiche scorrette nella gestione d’immondizia e scarti industriali), e rappresenta un enorme potenziale per i mercati emergenti, in particolare l’Africa.
Fare di più
L’ambizione dell’Unione europea è declinata nel Pacchetto sull’economia circolare, che contiene una serie di politiche per incentivare l’industria a sviluppare nuovi modelli di business. A febbraio, poi, la commissione Ambiente del Parlamento europeo ha dato l’ok alla revisione della direttiva quadro sui rifiuti, che introduce la responsabilità estesa del produttore (Epr – extended producer responsibility) nel settore tessile. Provvedimento accolto con favore dalle associazioni, che però hanno criticato l’assenza di norme sulla riduzione dell’utilizzo delle risorse. Il Consiglio e il Parlamento europeo hanno invece raggiunto un accordo politico provvisorio su una proposta di regolamento sul packaging e sugli sprechi di imballaggi.
Di sicuro è un inizio, ma c’è ancora molto da fare. Una relazione della Corte dei Conti europea fotografa una situazione poco incoraggiante: dal 2015 al 2021, il tasso medio di circolarità negli Stati dell’Ue è cresciuto di un modesto 0,4 percento. Sette nazioni hanno addirittura registrato un declino nelle loro prestazioni. In tale contesto, l’ambizione dell’Ue di raddoppiare il tasso di circolarità entro il 2030 appare difficilmente conseguibile.
Anche un rapporto pubblicato a marzo dell’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) conferma questi progressi incerti. Per farlo parte da un concetto che fino a qualche anno fa era relegato ai margini del discorso economico, diventato per fortuna più condiviso: il disaccoppiamento (decoupling) tra crescita economica e consumo di risorse. Questo disaccoppiamento, rileva il Rapporto, è stato modesto, “con il consumo totale di materiali in leggero calo mentre il Prodotto interno lordo dell’Ue è aumentato”. Insomma, si può fare di più, partendo da una spinta verso una maggiore durabilità e riparabilità dei beni, oltre che sul riciclaggio dei rifiuti.
Effetto “rebound” e occupazione
Per Pierluigi Zerbino, ricercatore del DESTeC dell’Università di Pisa, un elemento che frena l’economia circolare è il cosiddetto “effetto rebound”, quel fenomeno per cui i possibili benefici ambientali derivanti dalla transizione circolare sono in parte o totalmente annullati da un aumento della produzione e dei consumi dovuti a dinamiche di mercato. Per fare un esempio, un prezzo basso di un capo di vestiario prodotto con fibre riciclate può portarci ad acquistare più capi di quelli di cui abbiamo realmente bisogno. L’ultimo articolo scientifico pubblicato da Zerbino assieme a tre colleghi, da poco comparso sul Journal of Cleaner Production, è dedicato ai possibili metodi di misurazione del Rebound in contesti circolari, perché “solo conoscendolo più a fondo possiamo mitigarlo”.
Alcuni temono, invece, che il modello circolare abbia ricadute negative sull’occupazione. Ci sarà un aumento o un calo dei posti di lavori nell’industria? I risultati indicano che, molto probabilmente, ci sarà un impatto positivo. Effettivamente l’occupazione potrebbe diminuire nell’industria della lavorazione delle materie prime, ma aumentare in quella della rilavorazione e dei servizi.
L’Italia
Nell’Europa meridionale a essere leader nell’economia circolare è l’Italia. Secondo la Fondazione per lo sviluppo sostenibile, l’Italia è fra i Paesi europei con le migliori performance sia per la preparazione al riutilizzo e il riciclo dei rifiuti urbani e sia per quelli dei rifiuti di imballaggi, ma deve recuperare i ritardi che permangono in alcune filiere (come i Raee, i Rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, e sviluppare nuovi settori (come il riciclo delle batterie e dei pannelli solari). Sotto il profilo del lavoro, l’Italia è seconda solo alla Germania. Allo stesso tempo, va evidenziato come le grandi utility italiane investano sempre più risorse su alcuni settori dell’economia circolare, per esempio sul recupero dei materiali critici o i pannelli fotovoltaici.
Nell’ambito di un recente convegno, il sindaco di Lecce e delegato Anci Rifiuti ed energia, Carlo Salvemini, ha snocciolato i numeri a livello territoriale: il 69 percento dei Comuni raggiunge il 65 percento di raccolta differenziata, che è l’obiettivo fissato dal dl 2012, mentre le Città metropolitane si fermano al 61 percento. Dati positivi che però, ha aggiunto Salvemini, raccontano ancora una forte differenza territoriale: “Abbiamo un Nord che traina il paese mentre il Centro e il Sud sono ancora in ritardo”.
Oltre ai divari territoriali, Legambiente ha indicato una seconda zavorra chiamata burocrazia. Che in concreto significa “norme farraginose, autorizzazioni lente da parte delle Regioni, controlli delle Arpa a macchia di leopardo, progetti calati dall’alto senza condivisione territoriale”. E iter autorizzativi più rapidi e certi chiedono anche le aziende interpellate dal “Circular economy report”, pubblicato a fine 2023 dalla School of Management del Politecnico di Milano. A risentirne sono gli investimenti: il 41% delle imprese interpellate ha dichiarato di aver ottenuto un tempo di rientro dagli investimenti in economia circolare inferiore all’anno, ma in più della metà dei casi si tratta di investimenti sotto i 50mila euro. Intanto nelle Pmi sale il numero complessivo di “scettici”, ossia di chi non intende adottare nessuna pratica di circolarità: erano il 38% nel 2022, arrivati al 47% nel 2023.
Solo pochi giorni fa Fondazione Cogeme ETS e Kyoto Club hanno decretato i vincitori della settima edizione del Premio “Verso un’economia circolare”, rivolto a enti pubblici e privati che hanno realizzato progetti innovativi in materia. I Comuni premiati sono stati Martignano, nel cuore del Salento, per un progetto di comunità energetica basata sul riciclo della frazione organica e sulla produzione di biogas, e Genova, che ha iniziato un percorso di misurazione con 160 indicatori a livello urbano. Tra le grandi aziende ha avuto la meglio Iren con Circular Wood, il primo impianto italiano a produrre supporti logistici da legno proveniente esclusivamente dalla raccolta differenziata.
Nel frattempo, all’Università di Foggia si studia come trasformare i rifiuti in qualcosa di utile. Un progetto di ricerca che punta alla valorizzazione di polimeri a “fine vita”, non più avviati al riciclo, è infatti in corso nei laboratori dello Star Facility Centre, hub tecnologico dell'Università di Foggia collegato al Dafne - Dipartimento di Agricoltura, alimentazione, risorse Naturali e ingegneria. L’obiettivo è ottenere idrogeno e metano da plastica e rifiuti organici. Tra le novità del progetto del dipartimento Dafne c’è l'utilizzo, nel processo di pirolisi assistita, di scarti organici, e non più di materiali sintetici.
Le iniziative di certo non mancano. Forse quello che serve maggiormente, a livello internazionale, è definire cosa è circolare, adottare standard chiari e interoperabili. La ricerca sta lavorando parecchio sul tema, dagli standard dell’Easac (Consiglio consultivo delle accademie europee per la scienza) all’approccio Lca, la valutazione del ciclo di vita del prodotto. Strumenti utili che hanno però, nei fatti, un’applicazione limitata.