Dunque è deciso: la candidatura del paesaggio vitivinicolo del Piemonte a sito “Patrimonio Mondiale dell’Umanità” entra nella sua fase operativa. In questi giorni si fa un gran parlare di dossier, protocolli, intese …, al fine di creare le premesse politico-istituzionali indispensabili a una buona riuscita dell’iter di domanda. Trascurando il compiacimento di fondo – da piemontese – a ogni iniziativa che possa portare lustro e visibilità alla nostra terra, vorrei avanzare alcune riflessioni sul tema specifico della candidatura, spiegando le ragioni che mi portano – mosca bianca nel coro, mi sa – a essere fortemente contrario alla candidatura ...
Langhe, Roero, Monferrato: sono territori splendidi, in cui la natura ha voluto, come in pochi altri luoghi in Italia e forse al mondo, sbizzarrirsi in un concentrato di scorci, prospettive, fughe di orizzonti, quinte scenografiche. Su questo non si discute: si tratta davvero di una zona bellissima.
Il lavoro dell’uomo, poi, ha negli anni plasmato, com’è proprio della sua indole, il territorio e il paesaggio, antropizzandolo quel tanto che basta da renderlo – da semplice sfondo – palcoscenico vivo di attività, usi, costumi, sacrifici e vittorie, sconfitte ed epopee: anche questa presenza umana traccia un profilo visibile sulle nostre colline, rendendole uniche e, per dirla con Pavese, “imperdibili”.
Questo meccanismo virtuoso – questa armonia natura-uomo – si è però da anni bruscamente interrotta, con effetti visibili sotto gli occhi di chiunque affronti oggi un’analisi lucida del nostro territorio. Non solo i piani regolatori compiacenti (bisogna uscire dal solito, stantio dibattito sui capannoni), ma anche l’attività agricola hanno trasformato il paesaggio in un replicante mansueto delle nostre avidità, le nostre ambizioni, la nostra miopia nel rincorrere un benessere troppo facile, dunque alla lunga fasullo.
Le nostre colline, oggi, sono belle, sono ancora belle, lo ribadisco: ma non sono più così belle, soprattutto non sono più così pure, manca loro un vero tratto identitario che, contrariamente a quanto si può essere portati a credere, non è dato da un approccio univoco al territorio, ma da una pluralità di sguardi e di azioni, di obiettivi e strategie.
Le colline del Piemonte meridionale sono, oggi, il frutto di una duplice mancanza di coraggio: da un lato non si è saputo scegliere tra una vocazione artigianale e una missione ambientale (col risultato che oggi abbiamo un ibrido di fabbriche e vigne, aree artigianali e campi coltivati pochi metri più in là, borghi antichi e periferie maltrattate dal cemento), dall’altro laddove si è optato, ad esempio, per l’agricoltura, si è perso completamente di vista l’equilibrio tra le diverse pratiche, i diversi prodotti, le diverse attitudini territoriali.
Possibile che la Langa sia atta a produrre solo uva e nocciole ?
Possibile che i nostri vecchi fossero così stolti, quando diversificavano le loro produzioni, scegliendo diversi tipi di frutta, praticando l’allevamento, rispettando ogni singolo fazzoletto di terra per quanto era in grado di dare ?
Qualcuno si chiederà: che c’entra tutto questo con l’Unesco ?
C’entra, eccome: perché si è voluto prima l’uovo – svilire il territorio, appiattirlo, tarpargli le ali della bellezza e dell’autenticità – e ora si vuole la gallina, cioè la ribalta internazionale ufficializzata. Eh no, troppo comodo così !
Poi trovo francamente irritanti certi escamotages tipicamente, ahimè, all’italiana: come il fatto che la commissione Unesco dovrebbe “chiudere un occhio” su certe inevitabili brutture, oppure che i capannoni “dovrebbero essere schermati”, o ancora che bisognerebbe “scegliere con cura le aree da candidare” (tra virgolette sono tutte dichiarazioni riportate proprio da queste pagine nei numeri scorsi, chiunque può andare a verificare).
Ma, signori miei: è questa l’onestà ?
Dovremmo bendare i poveri commissari Unesco e liberarli solo ai piedi del cedro dell’Annunziata, sotto il castello di Serralunga, nelle cantine sotterranee dei Gancia ?
Siamo davvero a questo punto ?
Non è più corretto lasciare liberi gli osservatori di scrutare in ogni dove dicendo loro: “Questa è la nostra terra, questo è quanto abbiamo saputo o voluto fare, a voi la decisione” ?
E ancora: qualcuno si aspetta che il patrocinio dell’Unesco possa portare una valanga di denaro e favorire una maggior tutela dei nostri siti collinari, garantedoli da ulteriori aggressioni.
Sul primo caso porto un esempio concreto. Nei mesi scorsi sono stato a Timbuktù, la città misteriosa ai margini del Sahara. Visitando le moschee cittadine, tutte dichiarate Patrimonio Mondiale dell’Umanità e in evidente stato di abbandono, ho chiesto alla gente del posto come mai non arrivassero fondi dall’Unesco.
Ebbene, la risposta è stata: “L’Unesco ha troppi siti cui pensare, ormai i soldi arrivano col contagocce e non bastano neppure a stampare i depliant per i turisti”.
Ecco: noi dovremmo contribuire a togliere a realtà sull’orlo letterale della scomparsa dalla Storia anche un solo centesimo, in nome delle nostre ambizioni di paesi ricchi e forti politicamente ?
No, io non ci sto !
E sul secondo punto, quello dei vincoli paesaggistici, mi chiedo: ma c’è proprio bisogno dell’Unesco per costringerci a rispettare di più il nostro territorio ? Non ci arriviamo da soli, non abbiamo forse noi i mezzi, culturali e giuridici, per difendere il territorio da noi stessi ?
A me questa motivazione suona come una resa !
Per non parlare, ed è l’ultima osservazione, della lista dei comuni coinvolti nell’indagine per la candidatura: Barolo, Serralunga, Grinzane, La Morra, Canelli …
Ma questa è la Langa del Barolo, del Moscato, è la Langa che ce l’ha già fatta, non è il Piemonte delle colline minori, non è il Piemonte che da questo riconoscimento potrebbe – questo sì – ritrovare fiducia e slancio per rialzarsi, non è quell’altra Langa che in fondo dalla malora non è mai uscita del tutto e che merita, necessita e giustamente potrebbe ambire al riconoscimento di Patrimonio Mondiale dell’Umanità: perché fragile – proprio come la città che ho visto ai margini del deserto –, perché pura, perché sola.
Ecco, io credo che in una candidatura eticamente corretta, culturalmente sostenibile ed esteticamente valida possa starci, piuttosto, un altro Piemonte, non quello già celebrato e trionfante di cui si parla nei dossier di questo giorni.
Quest’ultimo la candidatura se l’è giocata molto tempo fa.
Spero che qualcuno dotato di onestà lo spieghi, ai commissari Unesco in procinto di arrivare.
E che, proprio per questo, essi non ci facciano alcuno sconto.
(Pubblicato su “La Gazzetta d’Alba” dello scorso 4 Marzo e sul n. 2 Marzo-Aprile 2008 de “Il Paese”).