di Franco Arminio, Poeta e Paesologo.
Non so più come dirlo: i paesi stanno sparendo, sta sparendo un mondo e da questa sparizione noi che abitiamo i paesi siamo attraversati come da una slavina silenziosa. Assistiamo a un urbanesimo al contrario. Non sono più tanto i paesani ad andarsene, è la città che raggiunge i paesi e li distrugge ...
Spesso ho scritto che dalle mie parti è stato troppo veloce il passaggio dalla civiltà contadina alla modernità incivile. Forse bisognerebbe segnalare un passaggio parallelo e altrettanto virulento dalla civiltà dei paesi al modello della città diffusa.
I luoghi stanno sparendo, spariscono letteralmente sotto i nostri occhi. Me lo ricordo bene il mio paese com’era trent’anni fa. Non sono nostalgico, sono impressionato dalla lacerazione dei legami. Ognuno di noi è come se avesse subito un pestaggio e fosse poi stato abbandonato per strada. Siamo infelici non tanto per le nostre vicende personali, ma per il contesto in cui viviamo.
Oggi anche il paese più sperduto è raggiunto dallo sciame della civiltà urbana: acqua, luce, telefono, automobili, computer. Beni e servizi come vie di fuga. Il paese non riesce a trattenerti nel suo pugno, è una mano morta su cui puoi vagare come una formica in cerca dello zucchero di una comunità finita. Fra cinquant’anni questa mano sarà nuova e di plastica, le case antiche saranno ricostruite, torneranno i vicoli e le scale, torneranno le piazze e le panchine, ma solo per mettere in scena per qualche giorno all’anno una vita a cui abbiamo smesso di credere, quella che consiste nel piacere di incontrarsi, parlarsi, passeggiare, passare il tempo senza assaltarlo.
Non voglio salvare il passato, voglio andare a dormire un poco più contento, voglio svegliarmi in un sentimento collettivo, in un ardore comune e non sempre in questa guerra che ci lascia senza amici e senza nemici, ci lascia soli, disperatamente soli anche nei momenti in cui una volta ci sentivamo insieme: quando si assisteva un morente non eravamo noi ad assisterlo, c’era l’idea potente di accompagnarlo. Adesso intorno al morente c’è chi è pagato per farlo.
La civiltà dei paesi significava che c’era un macellaio che diceva stronzate e un farmacista avaro e un prete bizzarro, e chi stava in campagna era uno di fuori. Ogni persona era dentro una cornice, fatta in primo luogo dai muri. Il paese cominciava e finiva in un modo preciso, come una cosa tonda o allungata, non aveva i margini sfrangiati, era sempre una bella forma, non aveva case isolate, tutto era connesso e intrecciato. C’era un umore comune che era di quel luogo e non di un altro, i carnacchiari di Andretta erano cosa diversa dai culi rossi di Bisaccia.
Un luogo ti dava un ghigno inconfondibile e lo sentivi quando andavi altrove, sentivi che erano diversi, che tu eri diverso. Allora si chiedeva alle persone “da dove vieni?”, adesso questa domanda ha perso senso. Si viene tutti dallo stesso posto, dalla stessa città invisibile. Calvino ne aveva immaginate tante, se n’è realizzata una sola, quella dell’autismo corale.
Tratto da: https://comunitaprovvisorie.wordpress.com/2017/11/14/la-comunita-dellautismo-corale/