Un gruppo di docenti e ricercatori di Bologna, guidato da Vincenzo Balzani e Nicola Armaroli, ha scritto una lettera aperta al Governo per chiedere che venga indetta una conferenza nazionale in cui si discutano le azioni necessarie per contrastare gli effetti sul nostro Paese. Un appello da firmare rivolto a università, cittadini e centri di ricerca italiani.
Appello al Governo
Conferenza Nazionale sul Cambiamento Climatico
Siamo un gruppo di docenti e ricercatori dell’Università e dei Centri di ricerca di Bologna che sentono il dovere di dare un contributo, attraverso la condivisione di conoscenze e informazioni scientificamente corrette, per superare le difficoltà poste dal cambiamento climatico nel nostro Paese.
Per questo motivo abbiamo deciso di inviare una lettera aperta al Presidente del Consiglio ed ai Ministri competenti e di lanciare un appello al Governo affinché i problemi dovuti al cambiamento climatico vengano urgentemente discussi in una Conferenza Nazionale al fine di mettere in atto appropriati interventi di mitigazione e di adattamento.
Dopo mesi di siccità, temperature ben più alte della media stagionale, ghiacciai che si sciolgono, foreste che vanno in fumo, chi può dubitare che il cambiamento climatico sia già oggi un problema che colpisce duramente l’Italia? Il nostro Paese, collocato in mezzo al Mediterraneo, è uno dei punti più critici del pianeta in termini di cambiamento climatico, fenomeno globale dovuto principalmente alle emissioni di gas serra causate dalle attività umane. L’ultimo rapporto dell’IPCC (Intergovernamental Panel on Climate Change) prevede un aumento in frequenza ed intensità degli eventi estremi e incrementi della temperatura media per fine secolo ben superiori al valore di 2°C, obiettivo degli accordi di Parigi.
Non è certo da oggi che si parla di cambiamento climatico in atto nel nostro Paese, ma solo un governo, nell’ormai lontano 2007, ha pensato di dedicare a questo tema strategico una Conferenza Nazionale. Da allora la situazione è molto peggiorata ma, paradossalmente, si fa sempre meno per porvi rimedio. Eppure non c’è settore economico e sociale che non sia colpito (se non addirittura sconvolto) dal cambiamento climatico: l’agricoltura, fortemente danneggiata dalla siccità; la sanità, che deve far fronte agli effetti diretti (canicola, inquinamento atmosferico) e indiretti (nuovi vettori di malattie) che mettono in pericolo la salute della popolazione; il turismo invernale, che non può più contare sulla neve naturale, e quello estivo, danneggiato dalla erosione delle spiagge; il territorio, degradato da disastri idrogeologici (frane, alluvioni) che hanno forti conseguenze sulla abitabilità e sulla viabilità; gli ecosistemi, devastati dal cambiamento climatico; le città che, come Roma, hanno gravi difficoltà di approvvigionamento idrico.
In altri paesi c’è una forte presa di coscienza sul problema del cambiamento climatico. Ad esempio in Germania un recente sondaggio pre-elettorale ha mostrato che circa il 71% degli interpellati è preoccupato dal cambiamento climatico più che dalla possibilità che si verifichino nuovi attacchi terroristici (63%). In Francia, la notizia che le risorse prodotte dal pianetanell’intero anno sono già state tutte consumate prima del 2 agosto (Earth overshoot day) è stata riportata in prima pagina da Le Monde e commentata in un lungo video dal ministro dellaTransition écologique et solidaire, Nicolas Hulot.
Come da molto tempo affermano gli scienziati e come è stato unanimemente riconosciuto nella Conferenza di Parigi del 2015, il cambiamento climatico è principalmente causato dall’uso dei combustibili fossili che producono anidride carbonica e altri gas serra. In Italia, in media ogni persona ogni anno provoca l’emissione di gas serra per una quantità equivalente a sette tonnellate di anidride carbonica.
Gran parte di queste emissioni non possono essere addebitate direttamente ai singoli cittadini poiché sono l’inevitabile conseguenza di decisioni politico-amministrative errate, a vari livelli. Ad esempio: le scelte urbanistiche (uso del territorio e localizzazione dei servizi) da parte dei comuni e delle regioni; le decisioni prese in tema di mobilità locale, regionale e nazionale che, direttamente o indirettamente, favoriscono l’uso dell’auto; gli incentivi, diretti ed indiretti, alla ricerca, estrazione, trasporto (spesso da regioni molto remote) e commercio dei combustibili fossili; la costruzione di infrastrutture superflue o addirittura inutili (autostrade, gasdotti, supermercati); la mancanza di una politica che imponga o almeno privilegi il trasporto merci su rotaia; le limitazioni e gli ostacoli burocratici che frenano lo sviluppo delle energie rinnovabili; gli incentivi alla produzione e consumo di carne; la mancanza di una politica culturale che incoraggi la riduzione dei consumi e l’eliminazione degli sprechi.
Nel nostro Paese sembra che molti settori della politica, dell’economia e del’informazione abbiano gli occhi rivolti al passato e siano quindi incapaci di capire che oggi siamo di fronte a problemi ineludibili con cui è necessario e urgente confrontarsi: le risorse del pianeta sono limitate e limitato è anche lo spazio in cui collocare i rifiuti, l’uso dei combustibili fossili va rapidamente abbandonato e altrettanto rapidamente è necessario sviluppare le energie rinnovabili.
Se non si tengono ferme queste realtà, si finisce per procedere con decisioni scollegate e perfino contrastanti che non portano ad alcun risultato. Ad esempio, si afferma di voler diminuire l’inquinamento e le emissioni di anidride carbonica e poi ci si rallegra perché aumenta il PIL grazie alle vendita di un numero di automobili maggiore del previsto. Si fanno convegni sull’economia circolare e sulla sostenibilità ecologica e sociale, ma si continuano a progettare discariche e inceneritori, si chiudono le fabbriche di autobus e si incoraggia la produzione di SUV lussuosi e potenti, vere icone del consumismo e delle disuguaglianze cha a parole tutti dicono di voler combattere. Ci si ostina ad estrarre dal nostro suolo e dai nostri mari quantità marginali di combustibili fossili con l’impiego di un numero sempre minore di persone e si frena lo sviluppo delle energie rinnovabili capaci di portare molta occupazione nel settore manifatturiero. Se puntassimo seriamente sulla messa in atto di una politica di mitigazione e adattamento climatico avremmo grandi benefici: aumento dell’occupazione, minori costi per emergenze e calamità naturali, minori spese sanitarie e un miglioramento nella bilancia commerciale (minori importazioni di combustibili fossili).
Nella Strategia Energetica Nazionale e nei piani di sviluppo dell’ENI si parla della necessità di passare dall’uso dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili, ma questa transizione è collocata in un futuro non ben definito e comunque lontano, che sarà possibile raggiungere, si dice, solo aumentando il consumo di metano. Si parla anche della necessità di sviluppare la produzione di biocombustibili, ignorando che nel settore dei trasporti si va verso un mondo “elettrico” perché l’efficienza di conversione dei fotoni del sole tramite la filiera che dal fotovoltaico porta alle auto elettriche è almeno 50 volte maggiore dell’efficienza della filiera basata sulla produzione e uso di biocombustibili. Nel frattempo, mentre Volkswagen adotta lo slogan “Think New” e lancia auto e miniautobus elettrici, osserviamo increduli che quella che era la “nostra” grande industria automobilistica (FCA) si ostina a produrre automobili tradizionali che fra non molti anni saranno fuori mercato.
Bisogna anche rendersi conto che la transizione dall’uso dei combustibili fossili a quello delle energie rinnovabili, pur essendo una condizione necessaria, non è di per sé sufficiente per mitigare il cambiamento climatico e tanto meno per costruire un futuro sostenibile. E’ indispensabile anche ridurre il consumo di energia e di ogni altra risorsa, particolarmente nei paesi sviluppati come il nostro dove regna lo spreco. Attualmente, un cittadino europeo usa in media 6.000 watt di potenza, mentre negli anni ’60 la potenza pro capite usata in Europa era di 2000 watt per persona, corrispondenti ad una quantità di energia sufficiente per soddisfare tutte le necessità. La Svizzera nel maggio scorso ha approvato con un referendum un piano energetico per ridurre i consumi pro capite da 6000 watt attuali a 2000 watt entro il 2050. Ci piaccia o no, anche noi saremo chiamati a mettere in atto misure di questo tipo. E’ anche importante capire che la riduzione dei consumi non può essere basata solo su un aumento di efficienza delle “cose” che usiamo (automobili, condizionatori, lampade ecc.), perché in tal caso può verificarsi l’effetto rebound (rimbalzo): una persona quando risparmia denaro per l’aumento di efficienza delle cose che usa è portata a spendere quel risparmio in altri modi, causando ulteriori consumi. Prima di puntare su aumenti di efficienza delle “cose” che usiamo, è necessario diffondere una cultura della sufficienza per far sì che le persone diventino consapevoli dei vantaggi di vivere in un modo sobrio, riducendo l’uso delle “cose” stesse. La sobrietà è uno degli elementi fondamentali per il successo di adeguate politiche di mitigazione e adattamento climatico.
Chiediamo ai colleghi delle Università e Centri di ricerca italiani e a tutti i cittadini che condividono quanto sopra riportato di firmare questo appello sul sito energiaperlitalia per stimolare il Governo ad organizzare una Conferenza Nazionale sul cambiamento climatico e a mettere in atto i provvedimenti necessari.