Fermiamo il consumo di suolo



Paola Bonora, geografa all’Università di Bologna, ha riassunto in un dettagliato ed utilissimo libro denso di dati il punto di arrivo di un lungo percorso attorno al concetto di “consumo di suolo”; un termine emerso dai circoli della società civile e della cultura critica e oggi divenuto particolarmente di “moda”. Il suo contributo si intitola “Fermiamo il consumo di suolo. Il territorio tra speculazione, incuria e degrado”, edito da “Il Mulino” (133 pagine, 12 euro) e ci piace intenderlo come un invito all’azione oltre che un approfondito scandaglio: essere maggiormente informati è un pungolo per raddoppiare le forze per contrastare un fenomeno che non deve più permettere alle nostre coscienze di attendere oltre per rafforzare la necessità di una “crescita zero” da contrapporre agli opposti orientamenti governativi contenuti, ad esempio, nello Sblocca Italia, che sposta l’offensiva del cemento e dell’asfalto sul piano delle grandi opere e sulla riapertura dei cantieri ...

Paola Bonora sviscera il tema partendo da quelle che ritiene le sue radici intrinseche, cioè il passaggio dalla città fordista alla città post-moderna, che si riassume nelle recenti rilevazioni dell’Ispra: in Italia vengono consumati 8 mq. di suolo al secondo: un rettangolo di 2 metri per 4 ad ogni respiro ! In media sono stati consumati più di 7 mq. al secondo per oltre 50 anni e negli anni ’90 del Novecento si sono toccati i livelli più alti, con quasi 10 mq. al secondo, ben oltre le medie europee.
Uno degli effetti diretti della copertura dei terreni con materiale impermeabile (soil sealing) è l’erosione causata dall’acqua: stiamo parlando di funzionalità del suolo compromesse e di dissesto idrogeologico (o, per dirla come prediligono i geologi, geo-idrologico). In Europa interessa 1,3 milioni di kmq., un quarto dell’intero territorio (all’incirca due volte la superficie della Francia).

Raramente si parla del suolo come di una risorsa non rinnovabile. Eppure le terre emerse rappresentano solo il 30 % della superficie terrestre (l’8 % ad altitudini superiori ai 1.000 metri), di cui le aree “sfruttabili” per la coltivazione in maniera naturale (cioè senza impianti idrici o di drenaggio artificiali) sono appena l’11 %.
Il suolo è lo strato superiore della crosta terrestre, composto da componenti minerali, organici, acqua, aria, organismi viventi …: è sempre utile ricordarcelo !

Fino agli anni ’70 abbiamo assistito all’urbanesimo (popolazioni che fuggono dal mondo rurale per addensarsi nei centri maggiori) nella città-fabbrica fordista subito caotica e congestionata che, via via, ribalta i vantaggi localizzativi e li trasforma in trappole da cui fuggire, affinando nuove sensibilità ecologiche. Si avvia così un graduale decentramento in periferie sempre più distanti e rarefatte che colonizzano il mondo rurale e mescolano città e campagna, contaminandole senza amalgamarsi.
La città postmoderna perde contorni e limiti, si slabbra, si sgretola in una galassia insediativa orizzontale, discontinua, polverizzata.

Il 72,1 % delle famiglie italiane possiede oggi l’abitazione in cui vive e molte di esse possiedono più residenze: è una percentuale altissima rispetto alle altre nazioni e questo rappresenta un presupposto culturale per l’esplosione dell’edilizia: prima della crisi – tra il 1998 e il 2007 – gli investimenti in costruzioni in Italia aumenta quasi del 30 % e in altre nazioni il dato è ancora più elevato (82,2 % in Irlanda, 73,4 % in Spagna, 69,9 % in Grecia, anticamera di un già prevedibile crack).
La città non è più sinonimo di forma (urbs), di vita comune (civitas), di consonanza politica (polis) e la campagna non è più uno spazio ameno in quanto segmentata da infrastrutture, capannoni, schiere di villette e megastore, appiattita dalle logiche dell’agroindustria, vittima della monocultura e dei suoi campi sterminati.

Nel primo boom industriale la popolazione urbana cresce in media del 10 % (ma a Torino, tra il 1951 e il 1961, cresce del 40 %;, a Roma e Bologna del 50 % …). Nei primi anni ’70 le città del Nord entrano in ciclo di decrescita e si avvia un processo di deurbanizzazione che alleggerisce il cuore tradizionale della città e spande forme di urbanizzazione in spazi sempre più remoti: la casa si trasforma in bene d’investimento e in status symbol, con una domanda crescente che perdura fino al 2002. Le imprese, però, continuano ad incrementare le nuove costruzioni e, dal 2005, il numero di nuove residenze supera il numero di nuove famiglie: la superficie consumata per residente passa da 178 mq. per abitante nel 1950 a 369 mq. per abitante nel 2012.

La città attuale è figlia della transizione postindustriale, precipitata in una crisi profonda demografica, economica, identitaria. Ma anche competitiva. Il rapporto tra pubblico e privato si ribalta a favore di una concezione che esaspera l’insofferenza normativa fino a mettere in discussione il ruolo della statualità, vista come freno all’esprimersi del gioco economico. Le regole della pianificazione vengono gradualmente superate ed eluse da prassi di negoziazione in cui le logiche mercantili diventano l’arbitro del destino delle città e dei sistemi territoriali. Il consumo - di suolo, di merci, di paesaggi, di socialità, di abitazioni – è la nuova cifra del cambiamento. La pianificazione generale diventa pianificazione mirata su specifici progetti, in base ad accordi diretti con i portatori di interessi economici.

In Italia la rendita copre il 32 % del PIL, una quota considerata più del doppio (15 %) di quella ritenuta fisiologica in un sistema economico equilibrato e conduce all’anticamera della bolla e della  finanziarizzazione immobiliare.
Il PIL nazionale dell’intero settore primario dell’agricoltura è, invece, pari appena al 2 %: una quota che non permette di coprire il fabbisogno interno e costringe all’importazione da altri paesi di prodotti alimentari basilari.

Paola Bonora dedica ampi spazi del suo libro proprio al ruolo odierno dell’agricoltura e, ovviamente, al tema (per noi cardine) del Paesaggio: quello perduto, quello “da consumare” secondo la concezione di Marc Augè, quello fondamentale per comprendere “dove siamo e dove sono le nostre anime in rapporto con il cosmo” (Hillman), l’impronta culturale della Natura, il paesaggio percepito, l’appartenenza storica. Per poi domandare (e domandarci) quali paesaggi vogliamo difendere e ripercorrere le norme dimenticate e disattese, a partire dall’articolo 9 della nostra Costituzione, dall’istituzione nel 1974 del ministero dei Beni Culturali, dalla legge Galasso, dalla Convenzione europea del paesaggio, dal Codice dei Beni Culturali e del paesaggio. Tutti prodromi di una norma nazionale che arresti il consumo di suolo, che ancora tarda a venire.

Dunque occorre analizzare con grande profondità l’alternativa (o, meglio, le alternative) al consumo di suolo, che tutti i dati offerti nel libro ci dicono essere un “cattivo affare” per le famiglie (sempre più indebitate) e per l’imprenditoria edilizia, alle prese con una non più procrastinabile riconversione.
Paola Bonora riprende quindi le green belts del regno Unito, le tutele delle aree agricole e i controlli sui cambiamenti d’uso della legislazione tedesca, i tetti alle nuove edificazioni della Francia, il dibattito aperto sui criteri di densificazione, il fondo speciale europeo per il recupero dei brownfields.

E, in conclusione, sferra un richiamo ad un vero ripensamento del territorio. Un ripensamento politico ma anche civico, in cui far germinare una nuova cultura fatta di giustizia ambientale e sociale, capace di immaginare un futuro possibile.

Questo libro, che consigliamo caldamente, offre innumerevoli spunti per identificare una direzione alternativa e di autentico “buon senso”: a noi il compito di trasformarla in una azione incisiva. Senza “se” e senza “ma”, ci verrebbe da suggerire …

Recensione di Alessandro Mortarino.

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