di Alessandro Mortarino.
E' da un po' di anni che la situazione finanziaria dei Comuni italiani veleggia in acque difficili, dato il progressivo drastico aumento dei tagli dei cosiddetti "trasferimenti dallo Stato" agli Enti locali (termine che possiamo tradurre in: meno denari nelle casse municipali ...). Uno degli strumenti più utilizzati dalle amministrazioni comunali per far ugualmente fronte agli impegni di "moneta corrente", è diventato quello delle entrate dagli "oneri di urbanizzazione": chi costruisce un nuovo edificio o modifica la destinazione d’uso di un edificio già esistente, paga. I Comuni incassano. Ma poi ...
Il meccanismo è semplice: la legge stabilisce che chiunque voglia edificare nuovi edifici deve partecipare alle spese relative che il Comune dovrà affrontare, in particolare verso le aree di nuova urbanizzazione. Un principio inequivocabile sancito dalla legge Bucalossi (L. 10/1977, art. 12), che stabiliva che i proventi da oneri di urbanizzazione dovevano essere obbligatoriamente utilizzati dai Comuni per “le opere di urbanizzazione primaria e secondaria, il risanamento di complessi edilizi compresi nei centri storici, le spese di manutenzione ordinaria del patrimonio comunale”.
Insomma: gli introiti degli oneri di urbanizzazione erano da considerarsi come forma di finanziamento per la copertura delle spese di urbanizzazione. E null’altro.
Questo principio – assolutamente comprensibile e condivisibile - fu messo in discussione e poi eliminato dal Testo Unico per l’edilizia (D.P.R. 380/2001, art. 136 c.2, lettera c), approvato dal governo Amato agli sgoccioli della sua legislatura (6 giorni dopo si insediò il governo Berlusconi). Firmatario e promotore del Testo fu Franco Bassanini, allora Ministro dell’Istruzione Pubblica e poi alla guida della Cassa Depositi e Prestiti.
In sostanza, nel Testo Unico, abrogando l’articolo 12 della Legge Bucalossi si voleva (nelle intenzioni) dare maggiore autonomia ai Comuni, cosa peraltro già pienamente riconosciuta dall’ordinamento delle autonomie locali del 1990 (L.142/1990) e poi successivamente da quello del 2000 (D.Lgs 267/2000).
L’abrogazione della legge Bucalossi venne (e viene) a coincidere con le enormi difficoltà finanziarie dei Comuni e la loro sempre più cronica mancanza di liquidità; una situazione che ha rapidamente spinto i Comuni ad inventarsi nuovi strumenti per "fare cassa" e, tra essi, il più semplice e a portata di mano è parso proprio spingere sull'acceleratore delle nuove espansioni edilizie, così da poter attingere alla liquidità degli oneri di urbanizzazione.
Questa facile opportunità ha fatto così perdere di vista i più ampi orizzonti che un piano regolatore dovrebbe (anzi: deve ...) abbracciare e la "fame" di vedere entrare denaro liquido in cassa ha dato il via a continue eccezioni e deroghe di proporzioni spesso macroscopiche. Insomma: per fare cassa si è deciso di autorizzare innumerevoli metri cubi di colate di cemento ... Senza porsi grandi domande sull'effettivo loro impatto, derivante proprio da quel miracoloso strumento di entrata finanziaria.
Gli oneri di urbanizzazione, quindi, hanno perso del tutto la loro peculiarità e hanno assunto la forma di una qualsiasi imposta, multa o balzello che i Comuni possono utilizzare nella spesa corrente per qualsiasi finalità, dagli stipendi dei dipendenti alle spese di rappresentanza.
Tutto secondo la legge, ovviamente ... ma le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: la sistematica disgregazione del territorio.
Successivamente, vi fu un parziale ripensamento della "Bassanini". Voi direte: capito l'errore, lo Stato si sarà deciso a riportare in vita il principio della vecchia legge Bucalossi.
Niente affatto: la decisione del 2007 fu semplicemente di modificare la percentuale del prelievo consentito ai Comuni, ovvero l'utilizzo come moneta corrente di quanto incassato dagli oneri di urbanizzazione, introducendo un tetto massimo pari al 75 %.
Prima era del 50 % ! ...
Ai Comuni viene così consentito di destinare fino al 75 % delle entrate derivanti da oneri di urbanizzazione e, in particolare, fino al 50 % per qualsiasi tipo di spesa oltre ad un 25 % per le spese di manutenzione del patrimonio.
Ci verrebbe da dire che quando si è drammaticamente in difficoltà finanziarie ci si può spingere fino al punto di vendere uno dei propri reni (e ciò, purtroppo, talvolta accade). Ma se il problema finanziario persiste, vendere il secondo rene diventa "leggermente" difficile. Nel caso dei Comuni, vendere (o svendere ?) il territorio per nuove costruzioni solo per far cassa è una similitudine affatto distante; dopo che il municipio avrà venduto tutte le terre libere che altro potrà fare ?
Una valutazione corretta, espressa in innumerevoli studi, convegni, libri, articoli da parte di illustri Architetti ed Urbanisti, indica inoltre un altro aspetto fondamentale su cui è bene riflettere: il beneficio che il Comune ricava inizialmente incassando i proventi degli oneri di urbanizzazione ha, in realtà, un effetto solo immediato. Nel senso che quel denaro "fresco" rappresenta un toccasana iniziale ma poi il Comune deve effettuare materialmente le opere previste e mantenerle nel tempo; ebbene, mediamente si può calcolare che nell'arco di soli 5/7 anni le spese relative sostenute dal nostro municipio saranno pari alle entrate registrate (una tantum) all’avvio. E da quel momento in poi lo "sbilancio" sarà evidente (ma questo conto economico parziale viene sempre accuratamente evitato ... Ci si accontenta di guardare solo al beneficio immediato del denaro fresco in entrata).
Quindi, nel breve/medio periodo - ragionando sempre e soltanto in termini economici e finanziari - pare evidente che al Comune non convenga favorire nuove costruzioni, poichè in pochi anni i suoi costi saranno superiori alle entrate.
Tralasciando, ovviamente, tutti gli altri aspetti di carattere sociale ed ambientale !