di Vincenzo Cerulli Irelli.
Vincenzo Cerulli Irelli, professore ordinario di Diritto amministrativo all’Università La Sapienza di Roma, ha rilasciato questo Parere pro veritate all’Associazione Italia Nostra. È pubblicata sul Bollettino di Italia Nostra, n. 390.
E' senz'altro vero che la vigente normativa non pone limiti temporali alle previsioni di edificazione privata, ma questo non vuol dire che l'edificabilità prevista non possa essere modificata da un successivo intervento di pianificazione urbanistica ...
La giurisprudenza amministrativa è infatti unanime e costante nell'affermare che "il comune, in sede di adozione di una variante al piano regolatore generale, ha la facoltà ampiamente discrezionale di modificare le precedenti previsioni urbanistiche senza obbligo di motivazione specifica ed analitica per le singole zone innovate, salva peraltro la necessità di una congrua indicazione delle diverse esigenze che si sono dovute conciliare e la coerenza delle soluzioni predisposte con i criteri tecnico-urbanistici stabiliti per la formazione del piano regolatore" (così Cons. Stato, sez. IV, 03-07-2000, n. 3646).
Si precisa tuttavia che "è comunque necessario che l’amministrazione dia conto delle ragioni che la inducono a modificare la destinazione di un’area nella quale lo strumento generale prevedeva l’edificazione" (Cons. Stato, sez. IV, 13-05-1998, n. 814).
Sul punto è interessante sottolineare che, secondo un costante orientamento giurisprudenziale, "neppure la preesistenza di un piano di lottizzazione approvato e già convenzionato costituisce - per se sola - un ostacolo alla modifica delle previsioni urbanistiche vigenti su una determinata area, proprio perché il PRG non rappresenta uno strumento immodificabile di pianificazione del territorio, sul quale i privati possano fondare sine die, le proprie aspettative, ma è suscettibile di revisione ogni qual volta sopravvenute esigenze di pubblico interesse, obiettivamente esistenti ed adeguatamente motivate, facciano ritenere superata la disciplina da esso dettata" (T.A.R. Lombardia, sez. Brescia, 12-01-2001, n. 2).
In sostanza, mi sembra che nessun ostacolo giuridico (ma vi possono certamente essere ragioni di carattere politico o comunque di opportunità) escluda che un comune, in sede di variazione degli strumenti urbanistici vigenti ovvero in sede di nuova redazione del piano regolatore, disciplini il regime di trasformazione degli immobili in modo difforme dal precedente atto di pianificazione, ad esempio prevedendo per alcune aree la destinazione a zona agricola.
Resta inteso che tanto maggiore sarà l'affidamento ingenerato nel proprietario, tanto più analitica ed esauriente dovrà essere la motivazione posta alla base del nuovo atto di pianificazione.
Effettuata questa premessa mi preme formulare un’ulteriore considerazione.
La nuova destinazione di un'area non deve coincidere necessariamente con l'imposizione di un regime di inedificabilità assoluta (ossia un vincolo di carattere sostanzialmente espropriativo ovvero preordinato all'espropriazione) né di un vincolo di carattere morfologico (caratterizzato cioè dalla particolare natura del bene).
Per quanto attiene alla prima ipotesi, è noto che la Corte costituzionale, con la sentenza 179/99, ha stabilito che si pone un problema di indennizzo per quei vincoli che
1) siano preordinati all'espropriazione, ovvero abbiano carattere sostanzialmente espropriativo, nel senso di comportare come effetto pratico uno svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà stessa, mediante imposizione, immediatamente operativa, di vincoli a titolo particolare su beni determinati, comportanti inedificabilità assoluta, qualora non siano stati discrezionalmente delimitati nel tempo dal legislatore dello Stato o delle Regioni;
2) superino la durata che dal legislatore sia stata determinata come limite, non irragionevole e non arbitrario, alla sopportabilità del vincolo urbanistico da parte del singolo soggetto titolare del bene determinato colpito dal vincolo, ove non intervenga l'espropriazione, ovvero non si inizi la procedura attuativa (preordinata all'esproprio) attraverso l'approvazione di piani particolareggiati o di esecuzione, aventi a loro volta termini massimi di attuazione fissati dalla legge.
Orbene, non vi è dubbio che, tra la previsione di una nuova destinazione su un'area, comportante la drastica riduzione degli indici di edificabilità (ad esempio destinazione agricola) e l'imposizione sulla stessa di un regime di inedificabilità assoluta (con tutte le conseguenze con riguardo all'obbligo indennitario, in caso di reiterazione), si collocano una serie di soluzioni pianificatorie intermedie, comunque compatibili con l'attuale disciplina della materia, non rappresentando cioè lo svuotamento, di rilevante entità ed incisività, del contenuto della proprietà.
Ricordo peraltro che la stessa sentenza costituzionale 55/68 ha riconosciuto che non ogni disciplina restrittiva dell'attività edificatoria comporta un obbligo di indennizzo: "rappresenta un punto fermo il concetto che non possono farsi rientrare nelle fattispecie espropriative le limitazioni del genere di quelle ammesse senza indennizzo dall'art. 42, secondo comma, della Costituzione, e, quindi, tra l'altro, quelle che fissano gli indici di fabbricabilità delle singole proprietà immobiliari, anche quando tali indici possono assumere valori particolarmente bassi (come nel caso di edilizia urbana estensiva e persino rada, del tipo di costruzioni circondate da ampi e predominanti spazi verdi). Pur essendo imposte nei confronti di singoli beni, tali limitazioni sono da considerare, infatti, operate sulla base di quel carattere tradizionale e connaturale delle aree urbane, basato su quelle esigenze di ordine ed euritmia nell'edilizia …".
Ed infatti è stato autorevolmente stabilito che "la destinazione a zona agricola contenuta in un piano regolatore generale non concretizza un vincolo a contenuto espropriativo, bensì conformativo del diritto di proprietà; ne consegue che la relativa prescrizione non è indennizzabile, né è soggetta al limite temporale d’efficacia di cui all’art. 2 l. 19 novembre 1968 n. 1187" (C. Stato, sez. IV, 06-03-1998, n. 382); "anche se i vincoli compressivi della proprietà immobiliare soggetti a decadenza quinquennale ai sensi della l. 19 novembre 1968 n. 1187 non sono solo quelli preordinati all’espropriazione ma anche quelli che comportano l’inedificabilità assoluta, o comunque che privano il diritto di proprietà del suo sostanziale valore economico, deve peraltro ritenersi che fra tali vincoli non rientri la destinazione a verde agricolo, atteso che quest’ultima non si configura come una limitazione tale da rendere inutilizzabile l’immobile in relazione alla destinazione inerente alla sua natura, restando al proprietario la possibilità di trarne un utile mediante la coltivazione e, inoltre una possibilità, sia pure contenuta entro parametri prestabiliti, di limitata edificazione" (C. Stato, sez. V, 07-08-1996, n. 881); ancora "è legittima la previsione di un’edificazione estremamente rada e la conservazione di ampi intervalli di verde finalizzata al più conveniente equilibrio delle condizioni di vivibilità della popolazione, in quanto la destinazione agricola può servire per orientare gli insediamenti urbani e produttivi in determinate direzioni, ovvero per salvaguardare precisi equilibri di assetto territoriale" (T.a.r. Lazio, sez. I, 19-07-1999, n. 1652).
In sostanza, l'amministrazione comunale, fermo restando l'obbligo di motivazione, può rivedere le destinazioni urbanistiche vigenti senza dover necessariamente addivenire all'espropriazione delle aree il cui regime intende innovare ovvero integrare una delle fattispecie che, sulla base della citata sentenza costituzionale, impongono un obbligo indennitario.
Quanto ai vincoli cosiddetti morfologici, concordo in pieno con le affermazione del prof. Campos Venuti, essendo indiscutibilmente vero che il regime giuridico preordinato alla tutela di tale tipologia di beni prevale sulle prescrizioni urbanistiche con esso eventualmente incompatibili.
Tratto da eddyburg.it (29.3.2004)