di Alessandro Mortarino.
In questi giorni in Piemonte si parla insistentemente di un "problema" di cui dovremmo essere consci da un po' di anni e che, invece, ci pone nella condizione di Alice nel paese delle meraviglie: sorpresi da una realtà mai compresa prima. Qualcuno continua a ripeterci che l'allarme è esagerato, che la situazione è impegnativa ma non drammatica, che dovremmo smetterla con le "chiacchiere da bar". Ben vengano, quindi, i dati che l'ARPA piemontese e l'ANBI (Associazione Nazionale Consorzi di gestione e tutela del territorio e acque irrigue) ha sciorinato per sintetizzare l'odierna situazione di fiumi e torrenti dopo un inverno che ha donato scarse piogge e poca neve...
I dati crudi sono molto eloquenti: il Piemonte è la regione con i territori più aridi d'Europa, secondo l'Organizzazione meteorologica mondiale, e il "magazzino" di neve risulta oggi scarso e preoccupante. Ci manca almeno il 50% degli accumuli necessari per i nostri bisogni futuri, a causa delle mancate piogge (40% in meno di precipitazioni rispetto alla media) e delle scarse nevicate che hanno ridotto del 45% l'apporto che ai corsi d'acqua deriva dallo scioglimento del manto invernale.
Nella provincia di Cuneo è come se nell'ultimo triennio - dal 2020 al 2022 - fosse mancato un intero anno di piogge e nevi.
Il Po, nei primi tratti a valle delle sorgenti, ha perso il 71% della sua portata, per i fiumi Maira e Pellice si aggira intorno al 50% rispetto al già deficitario 2022, mentre la Bormida registra valori che si attestano intorno al 42% rispetto all'anno precedente.
Il Tanaro, ad Alba, è sceso di un metro e mezzo e ha perso il 63% della portata, la Stura di Demonte la metà, all'Orba ne manca quasi il 30%.
Pensare all'acqua diventa, quindi, non un esercizio di stile da "intellettuali astratti", ma una priorità.
Vera.
Vita o morte.
Da che parte stiamo: della vita o della morte?
Dalla parte della vita, ma che diamine...
Attenti, però: la crisi idrica già la stiamo immaginando con la solita ristretta visione dettata dalla egemone "economia". Che non significa, ahinoi, parsimonia o uso avveduto ma proprio monetizzazione. Cioè invasi, opere innaturali e fantasiose per evitarci uno stop allo spreco.
Dunque: non vita ma morte.
L'antropologo Vito Teti ci aiuta a indossare lenti diverse da quelle puramente economiche. Le facciamo nostre, sempre più convinti che il futuro viva di sentimenti e non solo di fredde cifre...
Non avevo ancora letto i filosofi greci e gli orfici per pensare che l’acqua fosse vita e che tutto il mondo fosse acqua. Non avevo ancora sentito parlare di Corrado Alvaro per cogliere le strette trame e le sottili vene di un’identità che si costruisce nella mia terra a partire dal sentimento dell’acqua. Ero ancora un bambino. E tuttavia da piccolo ho sentito che l’acqua era l’elemento che segnava quotidianamente la vita di tutti, anche di noi bambini.
Pioveva e pioveva e sembrava che non dovesse mai smettere, il cielo diventava buio, calavano le tenebre, nonna e mamma (papà era in Canada) chiudevano la porta e le finestre. Quando arrivavano i lampi terribili, mi imploravano: “Non andare alla finestra”. Ho ancora una paura reverenziale dei tuoni e dei fulmini. E pioveva e pioveva e la nonna e la mamma accendevano la candela benedetta della Candelora e pregavano Santa Barbara, che veniva chiamata Barbàra per la rima dei versi, che stava in un campo e lampava e tuonava e lei, l’amara, non aveva paura. Poi improvvisamente la pioggia cessava e mi affacciavo al balcone per vedere uno spettacolo incredibile. Fuori, la strada in discesa, quella dei giochi e delle corse, era un torrente scuro marrone, come la terra argillosa che trascinava dal Critaro, e nelle acque correvano pietre, piccole e grandi, rami, piante, oggetti metallici e carcasse di animali. La sorpresa e lo spavento duravano poco.
Eravamo, noi bambini, passato il pericolo, immersi in quel fiume, abili a inventare giochi, a costruire barchette di carta e di legno che facevamo partire lontane lontane, là vicino dove era il nostro padre che mandava quelle lettere col buste colorate. C’’era l’acqua dei due fiumi, dove le donne andavano a lavare i panni, e dove noi bambini guardavamo ammirati, e poi l’acqua delle fontane vicino al paese e ancora l’acqua della fontana dove le donne sostavano e litigavano per il turno, con uno o più piccoli attaccati alle vesti e in mano i recipienti di creta. Le prese dell’acqua che servivano per abbeverare gli orti e l’acqua non bastava mai: bisognava alzarsi presto, prendere il turno, rispettarlo e non era sufficiente. I litigi e le risse arrivavano puntuali come le piogge e cessavano improvvisi come le tempeste estive. Avevo anch’io nella nostra proprietà la fontana personale, una sorgente d’acqua che accudivo e che aggiustavo e accarezzavo come una donna amata. E in una proprietà di mio padre c’era la fontana di Animella, piccola anima, dove chi beveva diventava pazzo e strambo.Mi capita di sorridere pensando a quanta acqua dei pazzi ho bevuto, tanta per non adattarmi alle vere follie del mondo. E il mare lontano, di cui si vede un ampio specchio, era l’oggetto del desiderio dove andavo d’estate con mamma.
Ma chi è nato in una zona dell’interno non diventa mai fino in fondo un uomo di mare. Superato il mare, laggiù, c’era mio padre. E ancora l’arsura dei mesi estivi, la grande calura, quando andavamo a frutta, quando giravamo i sentieri lontanti e poi arrivavamo sudati alla fonte e bevavamo bevavamo, incuranti delle avvertenze delle donne. L’acqua dei gurnali, le gebbie di acqua lungo i fiumi, le nostre piscine e vasche da bagni, dove ci spogliavamo nudi e sciaquavamo in un acqua gelida che adesso mi vengono i brividi soltanto a pensarci. E la fontana della piazza, vero e proprio centro del mondo, che ha visto l’infanzia della mia generazione, prima che si mettesse in viaggio. Cercavo sempre acqua e questa ricerca mi ha segnato per sempre. Conosco tutte le fontane del paese e tutte le fontane della Calabria, quelle più segrete e con i nomi e le leggende più strane. Dovunque vada debbo familiarizzare in qualche modo con le fontane e le vie dell’acqua. Una volta mamma e nonna tornavano della campagna e, come accadeva sempre, domandai cosa mi avessero portato: un oggetto, un frutto, un fiore, un legno. Non avevano avuto tempo per portarmi qualcosa e mi dissero bonarie e amareggiate: "non c’era niente, cosa potevamo portarti". Ed io lesto risposi: "potevate portarmi l’acquicella del fiume". La notte ascoltavo i suoni del torrente di Dorico e il rumore delle foglie che mi sembrano le voci delle donne e quelle delle persone che dovevano tornare e accompagnarmi durante la vita. Mio padre lavorava e costruiva l’America guardando le acque del lago Ontario…
(Tratto da: https://www.facebook.com/vitotetipage/)