di Giorgio Nebbia.
Nelle scorse settimane è stato pubblicato il libro: «Imbottigliata e venduta: la storia che sta dietro la nostra ossessione per l’acqua in bottiglia» (per quanto ne so non ancora tradotto in italiano), dello scrittore americano Peter Gleick. Se il consumo di acqua in bottiglie è una ossessione negli Stati Uniti, dove tale consumo si aggira su «appena» 115 litri all’anno per persona, figurarsi che cosa è in Italia dove tale consumo arriva a 200 litri di acqua in bottiglia all’anno per persona, dodici miliardi di litri all’anno per un fatturato di oltre tre miliardi di euro ...
Ogni essere umano per sopravvivere ha bisogno di circa due litri di acqua al giorno: circa 700 litri all’anno, occorrenti per diluire il cibo e per eliminare, sotto forma di escrementi, le scorie della vita. È dovere delle autorità pubbliche far sì che l’acqua potabile arrivi in quantità sufficiente e di buona qualità nelle case di tutti i cittadini. Per legge tale acqua non deve contenere elementi nocivi, residui di pesticidi, troppi sali, e così via. E comunque prima di arrivare al rubinetto viene depurata e analizzata.
Campagna contro il rubinetto
Da tempo è in corso una sottile campagna contro l’acqua potabile distribuita nelle case, accusata di avere sapore sgradevole, di «sapere di cloro», di essere poca; in alternativa ecco disponibili nei negozi decine di marche di acqua in bottiglia, in formati e di prezzi diversissimi. Da trent’anni a questa parte grossi gruppi finanziari hanno capito che ci si poteva arricchire prendendo, per pochi soldi, la concessione dell’uso dell’acqua delle sorgenti che viene imbottigliata e venduta, ad un prezzo fra 0,20 e 1 euro al litro, da duecento a mille volte superiore al prezzo pagato dai cittadini per l’acqua distribuita dagli acquedotti la cui tariffa si aggira fra 0,5 e 1 euro per ogni mille litri.
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Se l’acqua è di tutti i cittadini come può diventare un bene commerciato dai privati? È in corso la raccolta di firme per tre referendum che propongono l’abrogazione di alcuni articoli di recenti leggi che autorizzano, anzi impongono, la vendita a società private delle aziende che distribuiscono, fra l’altro l’acqua potabile. Chi contesta tali leggi fa notare che «per principio» un imprenditore privato che «vende» acqua potabile e servizi di depurazione delle acque usate, «deve» assicurarsi un profitto, con aumento delle tariffe dell’acqua pagata dai cittadini.
Quello che ormai si chiama il movimento «per l’acqua pubblica» è un interessante segno di una rinnovata attenzione per la politica dei beni collettivi, dei beni pubblici come sono l’acqua, le spiagge, le rive dei fiumi. E per la inaccettabile differenza delle tariffe dell’acqua potabile distribuita nelle varie città italiane. Ci sono dei costi per la captazione dell’acqua dalle sorgenti o dai fiumi o dal sottosuolo o dai laghi naturali o artificiali, per la filtrazione e purificazione dell’acqua in modo che raggiungano gli elevati standard igienici richiesti dalla legge per l’acqua potabile, e poi per il trasporto e la distribuzione nelle singole case. E le aziende acquedottistiche, anche quando sono pubbliche, devono coprire tali costi con le tariffe.
Dove le sorgenti di acqua dolce sono scarse e l’acqua deve essere trasportata con costosi acquedotti da grandi distanze o deve essere purificata, e questo avviene principalmente nel Mezzogiorno, i cittadini pagano di più con differenze anche di quattro volte fra le varie città.
Penalizzato il sud.
Un’altra delle forme di discriminazione fra Nord e Sud che rende disagevole la vita urbana e tarpa le ali al turismo. In questo terreno affonda le radici la speculazione delle acque in bottiglia, quei dodici miliardi di litri di acqua che ogni anno vengono venduti per dissetare a caro prezzo persone che avrebbero il diritto di avere la stessa acqua a basso prezzo a casa propria. Senza contare che questa grande quantità di acqua viaggia dalle Alpi alla Sicilia, dal Piemonte alla Puglia, contribuendo, per la maggior gloria degli imbottigliatori, ad aumentare il consumo di energia, l’effetto serra, e la massa, circa un milione di tonnellate all’anno di bottiglie di vetro o plastica.
L’acqua in bottiglia, rispetto all’acqua del rubinetto, ha la stessa qualità igienica e talvolta qualità chimica peggiore; soltanto pochissime acque in commercio contengono sostanze inorganiche («minerali») a cui si possa attribuire qualche virtù medicamentosa; la principale virtù biologica è la proprietà diuretica (la capacità di far fare, scusate il termine, la pipì) e che è proprio caratteristica di qualsiasi acqua potabile del pianeta. Addirittura le acque in bottiglia “leggere” sono particolarmente povere di sali di calcio, un elemento essenziale di cui occorrono ogni giorno 800 milligrammi nella dieta; da 100 a 300 milligrammi al giorno sono già forniti dall’uso normale dell’acqua di rubinetto, senza bisogno di integratori. Pensate a tutto questo quando andate a fare la spesa.
Tratto da: http://comune-info.net/2016/06/acqua-in-bottiglia-ossessione-italiana/