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Ex Mutua di Asti: opporre un miracolo alla vendita



di Carlo Sottile e Michele Clemente, Coordinamento Asti-Est.


Finalmente il mercato ha dato un segno di vita. I fautori della pura rendita urbana saranno soddisfatti. Forse si riprenderà con gli scambi tra oneri concessori e diritti edificatori. Solo a margine - la busta del mittente non è stata ancora aperta - sapremo a chi ha giovato tutta questa attesa. In queste cose, meno si parla di persone in carne ed ossa e meglio è. E' il consiglio che circola nelle agenzie immobiliari e negli uffici studi dei costruttori. A ben vedere, questa deriva mercantile era scontata. Se la vendita in blocco - con atti pubblici, i bandi - poteva conservare un qualche valore urbanistico, lo “spezzatino” a trattativa privata lo liquida in una pura e semplice speculazione immobiliare ...

Del resto cos'altro poteva accadere in questa attesa ? La differenza avrebbe potuto farla l'amministrazione comunale, imponendo alla proprietà un riuso degli immobili dismessi coerente con un progetto di città, con la storia e la vita vissuta dei suoi cittadini. Evidentemente un progetto per altri attori, non quelli che frequentano abitualmente l'assessorato all'urbanistica.
Quali attori allora ? Certamente le dodici famiglie di sfrattati che sperimentano da cinque anni un uso sociale (art.42 della Costituzione) di un edificio di proprietà pubblica, altrimenti abbandonato all'incuria. In via Orfanotrofio 19, nell'edificio della ex Mutua, quelle famiglie hanno ricostruito una domiciliarità andata perduta per ragioni di mercato, e lì risiedono. Un collettivo vi ha organizzato un insieme di attività espressive, di studio e di convivio, sottraendole ai condizionamenti del mercato e del conformismo culturale. Sei bambini sono nati lì, e molti altri da quel luogo raggiungono le scuole cittadine o vi sono accompagnati dai genitori. Per tutti, genitori e figli, quel luogo, bene o male, è la loro casa; non è un bivacco.
E' il luogo in cui esercitano, tra mille difficoltà, i loro diritti di cittadinanza.

Sono certamente loro tra gli attori di un possibile “diritto alla città” finalmente sottratto al partito del mattone.  La decisione di vendere passa sopra a tutto questo, e sconta l'idea che questa esperienza possa essere rinchiusa nel recinto dell'illegalità, i suoi protagonisti costretti nel ruolo di temibili sovvertitori dell'ordine costituito, nonché di passivi destinatari di provvedimenti compassionevoli. Cosa bisognerebbe fare, dunque ?
Innanzi tutto non confondere il problema sociale delle famiglie sfrattate e con redditi precari, con il problema legale che le stesse famiglie stanno affrontando nei processi  per il reato di occupazione (ultimamente derubricato a reato amministrativo). Di tale confusione, che fa vivere la povertà come una colpa, sono responsabili molti funzionari pubblici, impiegati agli sportelli, assessori, sindaci. “Siete illegali” è la risposta che le persone occupanti ricevono alle prime difficoltà di accesso ai diritti di cittadinanza.

La seconda scelta da fare è di esigere, o di imporre, un uso della proprietà immobiliare, che non sia la sua riduzione a puro e semplice valore di scambio. Come ? Ricomponendo quanto è già stato fatto dalle famiglie occupanti in un progetto di auto-recupero, incluso in un comodato d'uso con l'Asl o preceduto, se occorre, da un atto di requisizione. Le famiglie avrebbero finalmente riconosciute le loro virtù civiche. L'edificio sarebbe riconsegnato alla funzione sociale con cui è riconosciuto da sempre. Lo “studio di fattibilità” per 19 alloggi di edilizia residenziale pubblica, allegato alla variante Asl, del 2009, uscirebbe dalla sua aleatorietà.

In più ci vorrebbe un pizzico di umanità e di mecenatismo, qualche professionista libero dai vincoli della corporazione, una banca più etica che di affari, una opinione pubblica non troppo condizionata da perbenismi e riflessi d'ordine.

Insomma, quasi un miracolo.





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