Distanziati e connessi

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di Sergio Motolese.
Uno dei tanti effetti collaterali provocato dal covid-19 è il cosiddetto “distanziamento sociale”, termine improprio nel quale comprendere situazioni di impatto e gravità diversi, ma tutte con un denominatore comune, che possiamo riassumere in un unica parola: solitudine...


L'effetto più drammatico è quello subito da coloro che sono morti in ospedale senza la vicinanza di parenti e amici, circondati da macchinari e persone nascoste in strati di tessuti. Medici, infermieri e ausiliari hanno fatto tutto ciò che umanamente hanno potuto per sopperire i disastri di una organizzazione sanitaria frutto di tagli, sperperi, scandali e scelte politiche dissennate. Ma chiunque abbia in vita sua assistito una persona morente conosce l'importanza di una stretta di mano, uno sguardo e una parola da parte di una persona conosciuta. Così la morte, da evento drammatico ma che dovremmo ritenere naturale, è diventata un incubo e i funerali frettolosi, le colonne militari e le fosse comuni ci hanno presentato scenari disumani.

Vi erano alternative? Prescindendo da tutti gli errori commessi nell'emergenza, sino a che continueremo a concepire gli ospedali come “aziende” e la sanità come un “mercato”, questo e altri problemi difficilmente potranno trovare soluzioni che privilegino la persona in tutti gli aspetti materiali e spirituali.

Ci sono poi situazioni nelle quali il distanziamento sociale ha creato e crea tuttora effetti meno drammatici ma significativi. Basta pensare a chi vive solo ed è stato privato di una stretta di mano, un abbraccio o un bacio; i bambini, per i quali il contatto sociale è essenziale e che subiscono danni maggiori di quanto si è disposti ad ammettere; gli anziani, privati di sole, luce, movimento; senza dimenticare le persone fragili, sino a casi limite, come i sordo-ciechi, per i quali il tatto è l'unico contatto col mondo esterno, e via dicendo.

La sciagurata scelta di impedire per legge l'uscita da casa, seguita da quella addirittura grottesca di voler definire i “congiunti”, pretendendo di scegliere d'autorità chi si ha diritto di incontrare, rende la situazione sempre più lontana da tutto ciò che si definisce umano. Lascio da parte i problemi di diritto. Speriamo solo che si provveda ad annullare d'ufficio tutte le multe, pena una valanga di ricorsi che metterebbero in crisi i tribunali.

Vi erano alternative? Si, infatti alcuni Paesi, come la Svezia, le hanno praticate, conferendo alle persone una fiducia e dignità maggiori. Vietare i grandi assembramenti (calcio, cinema ecc.), una campagna di sensibilizzazione accurata, dibattiti seri tra scienziati e non, evitare terrorismo mediatico ecc.

La cosa preoccupante è osservare come tutti i gesti siano già divenuti quasi automatici: ci si parla a quattro metri di distanza, si gira al largo nell'incontrarsi, o perché si ha paura o perché si pensa che l'abbia l'altro. Lascio da parte i casi patologici: delatori, violenti, insulti a passanti senza mascherina, ecc.
Tutto ciò e altro ancora non passeranno molto facilmente e occorre fare parecchie riflessioni in proposito, affinché la retorica dell' “andrà tutto bene” non sia solo consolatoria o un modo per tranquillizzare i bambini, che peraltro ne hanno bisogno. Mi devo limitare ad una sola riflessione importante, con una domanda: quali opportunità di comprensione ci permette questo coronavirus?

La prima risposta è la possibilità di comprendere e sperimentare che l'umanità è un grande organismo sociale nel quale ciascuno occupa un posto unico e insostituibile. Può piacere o meno a chi vuole ergere muri e barriere, ma siamo legati gli uni agli altri, respiriamo la stessa aria, che è zeppa di germi e virus di tutti i tipi, alcuni utili e altri dai quali ci difendiamo naturalmente; pensare di isolarsi, di chiudersi o chiuderci a chiave (lock down) è insensato. L'illusione di non essere “infettati” (brutto termine da abolire) dal vicino rischia di non farci accorgere di quanto siamo influenzati, proprio “infettati” da immagini e bollettini di guerra, così da essere disposti ad accettare l'inaccettabile.

Infine, come ci viene proposto di sopperire al forzato isolamento? Con un ulteriore isolamento, spacciato per “connessione”. Peccato sia virtuale, ingannevole. Se osserviamo la differenza tra un incontro reale, nel quale ci si guarda, si vedono le espressioni degli occhi e del volto, i gesti, la voce naturale, e lo confrontiamo con l'incontro virtuale mediato da una piattaforma, possiamo renderci conto di quanto sia non vera l'idea di sostituire ciò che è umano con strumenti tecnologici, i quali più che intelligenti, “smart”, sono copie sbiadite, vuoti contenitori in cui l'essenza è persa: l'umano.

L'usarli è un ripiego, non certo un'opportunità, come ci viene suggerito dai soliti “innovatori”, e forse sperimentandone la differenza, come avvenuto in questi mesi, possiamo rivalutare l'importanza di un abbraccio. Un distanziamento sociale imposto per legge materializza il mondo orwelliano, non più pensiero complottistico ma realtà che scorre sotto i nostri occhi. Se comprendiamo, infine, anche soltanto l'assurdità di un pensiero che vorrebbe farci credere che un algoritmo sia più efficace di un insegnante in carne e ossa, allora forse questa esperienza di distanziamento sociale sarà stata anche utile.