di Marisa Pessione.
Ci sono piccoli libri che si nascondono e anche esseri umani che stanno nell’ombra ma che testimoniano, con il loro agire, la semplicità del loro esistere. Basta solo cercarli e farli venir fuori da scaffali comunitari, fargli prendere luce e custodirli nei nostri occhi e nelle nostre menti perché solo attraverso la parola scritta possiamo avere una minima certezza che qualcosa rimanga di un diverso modo di pensare e agire.
“Idee per rimandare la fine del mondo” è un piccolo libro edito da Aboca che racchiude il pensiero di un piccolo grande uomo: Ailton Krenak, attivista e leader indigeno nato in Brasile nella valle del rio Doce, un territorio dell’Amazzonia dove il suo ecosistema è stato fortemente compromesso dalle attività di estrazioni minerarie...
La bellezza nell’addentrarsi nelle sue pagine sta nel porsi degli interrogativi e non delle soluzioni precostituite e nel riflettere sulla impossibilità di concepire uomo e natura come entità separate.
Questa scissione forzata è la vera causa del disastro ambientale dell'epoca dell’Antropocene dove l’uomo, considerandosi superiore alle altre forme di vita, ha perso non solo la capacità di dialogare con la terra ma anche la qualità delle relazioni. Un mondo che Krenak definisce specializzato nelle assenze: del senso di vivere in società e dello stesso senso dell’esperienza della vita.
Gli unici nuclei che ancora ritengono che sia importante stare attaccati alla Terra sono quelli che sono stati dimenticati ai margini del pianeta, sulle rive dei fiumi, ai confini degli oceani, in Africa, Asia e America latina: i popoli indigeni, in sostanza una sub-comunità, come la definisce Krenak, e che lo porta a domandarsi come riconoscere un punto di contatto tra loro e noi, due mondi che hanno un’origine comune, ma che si sono così tanto distaccati da portarci ad avere persone che hanno bisogno di vivere sulle rive di un fiume e altre che invece considerano i fiumi solo una risorsa?
Il futuro è una caduta progressiva e negli ultimi tempi non stiamo facendo altro che precipitare. Cadere, cadere, cadere. Ma la nostra caduta può stimolare risorse sopite, attirare le nostre capacità critiche e creative. Penseremo allo spazio non come a un luogo limitato, ma come al cosmo da cui possiamo cadere giù appesi a dei paracadute colorati.
Rimandare la fine del mondo?
Un sogno o la ricerca e l’incontro con chi ha custodito la memoria profonda della Terra?